LUISA BONESIO

 

   LA COMUNITA' DI PAESAGGIO     

 

 

 

 

 

IDENTITÀ DEI LUOGHI E TRADIZIONE

  Come è possibile, oggi, nell’epoca della mondializzazione, pensare di preservare dalla ondata omologante la singolarità paesaggistica e identitaria dei luoghi? Infatti la globa- lizzazione, che batte innanzitutto le strade dell’economia e della tecnica, ha ripercussioni evidenti anche a livello di organizzazione spaziale. La tendenza a rendere somiglianti tutti i luoghi del mondo, a dispetto delle loro diversità culturali e geografiche, è resa pressoché irresistibile dalla potenza livellante della tecnica: là dove essa arriva, tutte le forme del- l’esistente subiscono una rifusione all’interno del suo linguaggio in-differente, il pluriverso e la differenziazione si trovano ad essere più o meno rapidamente sostituiti dall’uni-formità, che spiana il terreno a quell’altra potenza di deculturazione che è l’economia di profitto. Inoltre, oggi la virtualizzazione della realtà tende a dissolvere definitivamente le tradizio- nali coordinate e il nostro stesso modo di fare esperienza dello spazio. D’altra parte tutto ciò non è che l’inevitabile conclusione dello sforzo tecnologico del secolo che si è inge- gnato a fare dei luoghi una
tabula rasa, utilizzando i territori come spazi amorfi nei quali dispiegare liberamente le strategie di pianificazione e di massimizzazione economica: in effetti gli strumenti a disposizione della tecnica sono così potenti da poter riconfigurare secondo piani interamente artificiali l’assetto dei luoghi, rendendoli funzionali alla logica dell’economico, che necessariamente deve astrarre dalla concreta particolarità delle si- tuazioni. La modernità tecnoeconomica si è ingegnata a distruggere le particolarità mor- fologiche e culturali, e già da molti anni la progettazione del territorio avviene prescin- dendo dalle specificità effettive, spezzando la continuità di senso che individua un luogo lungo lo scorrere del tempo e disarticolando il tessuto complesso della sedimentazione territoriale che ne costituisce l’identità fisiognomica. Così quella che oggi si dà a vedere è un’immagine dei luoghi senza profondità né sostanzialità storica; nella migliore delle ipo- tesi un mero scenario, una rappresentazione estetica o una semplice segnaletica di valori storici, tradizionali e culturali per una rapida fruizione turistica.
  Il presupposto dell’ideologia economicistica dello sviluppo è la libertà dai vincoli, com- presi quelli rappresentati dalle specificità locali e dalle tradizioni culturali: la modernizza- zione è stata appunto la violenza sradicante e livellante esercitata sull’intero pianeta in nome di un dogma economico che si è potuta realizzare con l’efficacia trasformatrice della tecnica. È sempre ancora questa la giustificazione accampata per le innumerevoli distruzioni perpetrate in suo nome, comprese quelle rivolte al “territorio”, concepito, in coerenza con i presupposti dell’ideologia economicistica, come qualcosa di indifferente- mente appropriabile e manomettibile, o quelle rivolte contro il patrimonio culturale in no- me della presunta inarrestabilità delle logiche economiche e degli imperativi della mo- dernizzazione. Il “paesaggio”  finisce allora per diventare quel fastidioso inciampo che, da parte loro, i responsabili della sua tutela (quando ci sono) spesso concepiscono nei termi- ni di una museificazione dell’esistente o di un ripristino filologico e simulacrale di qualcosa che non esiste più, all’interno di una dinamica in cui le immagini finiscono per sostituirsi sempre di più al reale, virtualizzando e desostanzializzando il mondo. Ma il prendere atto di questo scenario non deve essere un alibi per liquidare quel che rimane dell’identità dei luoghi, della loro specifica e preziosa differenzialità paesaggistica e
dunque culturale e identitaria; ma anziché partire dalla presunta immodificabilità delle tendenze all'omolo- gazione anche sul piano della gestione degli spazi dell’economia globale, di fronte alla quali non ci sarebbe salvezza, assumere la specificità locale come quell’insieme di simbo- licità, territorialità, qualità estetiche e comunitarie che dettano i modi, la misura e i tempi della dimensione economica, in continuità con i tratti identificanti della memoria territo- riale, con la singolare fisionomia simbolica del paesaggio culturale che vi si esprime.

  Né si tratta di riconoscersi nella
 “verdolatria” , in un ecologismo che riesce a pensare so- lo le ragioni di una presunta naturalità ma fatica a comprendere il carattere profonda- mente “culturale” del paesaggio, l’intreccio pressoché indissolubile di “ambiente”  e “uo- mo” che si esprime nella forma e nelle possibilità del “territorio”, quanto piuttosto di acce- dere alla consapevolezza che al pensiero della gestione territoriale, in termini politici, am- ministrativi, progettuali, è mancata finora una rappresentazione delle differenze, delle se- dimentazioni storiche e temporali, degli aspetti qualitativi, e anche di quei  “colori” e di quelle “figure” che compongono, con il loro gioco di differenze, la realtà dell’insieme dei luoghi. Se ogni paesaggio è una località(1) culturale, la manomissione della sua identità formale e simbolica avrà come conseguenza non solo uno stravolgimento dei valori este- tici, memoriali e naturalistici, ma costituirà anche un attacco al sistema di identificazione culturale, in quanto modalità specifica e singolare di coappartenenza tra una determina- ta forma di cultura e l’insieme geografico-ambientale in cui è situata. Se ogni cultura, na- scendo in un “paesaggio”  e in una lingua, dunque in un determinato universo di possibili- tà simboliche, contrassegna in modo specifico e singolare le forme del proprio luogo na- turale, così che è possibile parlare di uno “stile” del paesaggio, è evidente che l'alterazio- ne del rapporto di equilibrio con l’ambiente o un intervento dissonante con la fisionomia del luogo (ciò che registriamo come “degrado”  o “aggressione” dei valori paesaggistici), lungi dal potersi confinare nel campo marginale dell’estetica, concerne le stesse condizio- ni dell’identità culturale (dell’insieme e dei singoli).
  Nel contesto tardomoderno in cui giungono al più alto livello la crisi e l’insostenibilità di un modello di sviluppo basato sul dogma di una crescita illimitata, e dunque sulla riduzio- ne del territorio a estensione indifferentemente manomettibile dalla tecnica e da criteri di economicità dettati dalla globalizzazione, si impone con urgenza la questione della di- struzione irreversibile dei luoghi, ormai intesi prioritariamente come depositi di risorse e spazi di utilizzazione economica. Il territorio, in quanto realtà naturale e ambientale, ha proprie regole di conservazione e riproduzione (di lunga durata), le quali, se ignorate, por- tano al dissesto e alla distruzione. I luoghi sono sempre dotati di una propria “individuali- tà”  (che il geografo Vidal De La Blache chiamava la “personalità” ) che costituisce pro- priamente la loro
facies culturale, il loro essere “paesaggio”  prodotto da comunità che ne rispettano la legge singolare di configurazione e mantenimento. Se i luoghi si manten- gono nella propria differenzialità singolare grazie a continui atti territorializzanti – cioè a comportamenti e scelte che conservano e incrementano il  “senso”  della loro specificità, la questione della “conservazione”  non può che assumere un ruolo centrale (2).

  In altri termini, un luogo è tale solo se le sue “invarianti strutturali”
(3)  sono mantenute: se «i caratteri fondativi delle identità dei luoghi», ossia gli elementi che strutturano il territorio, sono riconosciuti nella loro natura di “patrimonio territoriale” durevole. Secondo Magna- ghi devono essere questi “caratteri identitari”, che costituiscono il “valore di un luogo”, a dettare «direttive, prescrizioni, azioni per la tutela e la valorizzazione secondo obiettivi prestazionali riferiti alla sostenibilità dello sviluppo, dal momento che è la permanenza e la durevolezza di tali caratteri a costituire l’indicatore principale della sostenibilità»(4). Ogni tessuto territoriale è un organismo complesso e delicato, non riducibile a mero spa- zio disponibile per qualsiasi intervento, bensì una plurima sedimentazione di temporalità e intenzionalità simboliche e funzionali diverse, scale e orientamenti differenziati che non si sovrappongono o si elidono meccanicamente, come strati inerti, ma piuttosto si armoniz- zano in una vitale integrazione e collaborazione resa possibile dalla presenza articolante e vivificante di una stessa matrice(5) di interpretazione e configurazione spaziale e simbo- lica. Solo da una lettura consapevole del territorio locale, nelle sue interconnessioni glo- bali, può essere compresa la straordinaria portata culturale, civile e comunitaria (oltre che ecologica) di un modo nuovo (in realtà tradizionalissimo) di intendere il progetto e la realizzazione architettonica: come un prendersi cura di tutto ciò che concorre alla vita della irripetibile singolarità dei luoghi, nei loro tratti paesistici, tradizionali, memoriali, diffe- renziali, con la spontanea sollecitudine con la quale si cerca di evitare il degrado, l'ab- bandono, l’imbruttimento, il malfunzionamento della propria dimora.
  Ogni cultura, finché è vivente e consapevole di sé, opera in accordo con il
nomos dei luoghi per poter fiorire e mantenersi, mentre la contemporaneità mercantile e speculati- va, con una caratteristica miopia, anche in fatto di gusto, finisce con l’interrompere in modo tendenzialmente definitivo il circolo virtuoso territorio-cultura, anche a partire dal profondo misconoscimento dell’idea stessa di “conservazione”. In questo contesto l'affer- mazione della necessità di riconoscere ed elaborare uno “statuto dei luoghi” (6), da parte degli urbanisti, significa il riconoscimento della necessità di mantenere “l’identità culturale del territorio” (7), a partire dall’individuazione di matrici formali che si rivelano nella confi- gurazione temporale. Leggere il tessuto storico, la conformazione territoriale sottostante all’aspetto estetico, a sua volta realizzato a partire dall’insieme delle possibilità di attiva- zione simbolica insite nel luogo, è il passo preliminare a qualsiasi operazione di pianifica- zione o intervento.

  Non si dà paesaggio (ossia una realtà territoriale individuata da una fisionomia culturale senza trasmissione di saperi, modi e stili specifici di rapporto con il territorio (inteso come il risultato di atti coerenti, anche se distribuiti in un arco temporale magari molto lungo, di territorializzazione): senza
tradizione. Ma la tradizione, diversamente dall'accezione imbal-samatoria ed eternizzante in cui per lo più suona il termine (8), è un processo dinamico di selezione, valorizzazione, adattamento del «patrimonio» che costituisce una cultura nella sua differenzialità, nel mantenimento della riconoscibilità delle sue “matrici formali” attra- verso l’incessante adattamento e trasformazione della realtà territoriale: esse devono po- ter costituire il più a lungo possibile il terreno comune e il criterio fondamentale di ogni getto che riguardi quel luogo. Non si tratta soltanto di un restauro/ripristino dei “monu- menti” o una fossilizzazione di quanto del passato è sopravvissuto all’ondata devastatrice del cosiddetto “sviluppo” ; al contrario, è partendo dalla tradizione che diventa possibile progettare per il futuro, rifondare la città a partire da un correlativo recupero delle cam- pagne (9) e da un privilegiamento del riuso e della manutenzione delle strutture esistenti (10). Dunque la necessità di un’emendazione del paesaggio dagli interventi e dagli effetti di progettazioni miopi e devastanti: in molti casi, non solo si può, ma si dovrebbe conce- pire il futuro come un ritorno allo statuto intrinseco dei luoghi, «ristabilendo le condizioni originarie dei luoghi deturpati […] Il bosco deve ritornare ad essere un bosco, il prato un prato» (11).
  “Conservare”  significa tenere presso di sé (cum-serbare), preservare nella cura, tratte- nendolo dalla sparizione, ciò che si ha a cuore, dunque con un’intensità che può concer- nere solo ciò che davvero conta per noi: tutto il contrario dell’accezione freddamente museale, asetticamente imbalsamatoria con la quale per lo più risuona alle nostre orec- chie questa parola, e che presuppone un automatico disinteresse e una subitanea dimen- ticanza per quanto, essendo stato catalogato, può essere abbandonato in un virtuale deposito di memorie da cui sembra poter essere momentaneamente estratto ogni volta che lo si voglia, magari da quelle istituzioni che consentono la buona coscienza dell’oblio e della distruzione, siano esse musei o parchi a tema, oppure  “riserve”  etnografiche o ar- cheologiche di vario tipo. Una concezione tutta moderna del “patrimonio”, che è l'inven- zione di un tempo immaginario, costellato di monumenti decontestualizzati cui si attribui- scono un significato e un’ambientazione storica eterogenea, con l’invenzione di una sor- ta di intemporalità. «Il nostro approccio culturale al tempo riposa su due termini in ap- parenza contrapposti, come se si trattasse di unire tramite opposizione il fisso e il fluido, il passato concentrato, immobile e ossessivo e il presente mutevole, evolutivo o sfuggente. […] Sono valori falsi, nozioni mutile […] invece di andare verso la complessità delle eredi- tà e dei modi di divenire, che in ogni epoca, incessantemente, collegano la mobilità e la permanenza, si sono ripartiti i termini in modo arbitrario: la permanenza è affare del pas- sato; la fluidità e il mutamento sono questione del presente e del futuro» (12). Un’eredità immobilizzata nell’ideale intoccabilità museale non può che essere già da sempre per- duta.
  Invece, solo coloro che ereditano consapevolmente potranno accedere al futuro: come scriveva Nietzsche, l’uomo dell’avvenire è colui il quale è dotato di più lunga memoria; chi, si potrebbe dire, ha le radici più profonde e ramificate, saldamente piantate nel terre- no delle sue tradizioni. A differenza di quanto ha pensato la cultura faustiana dell'Occi- dente, non è nel nomadismo senza riferimenti né orizzonti, nella scelta “oceanica”
  dell'il-  limitato e immisurabile che si trova la promessa dell’a-venire, bensì in una rinnovata con- sapevolezza del proprio orizzonte nella sua ineliminabile embricazione con gli altri orizzon- ti, accessibili uno alla volta, nella propria specificità: non quindi nella “grande discarica” dell’omologazione, nel mercato dove si trovano i detriti e le caricature di tutte le culture del mondo, e nemmeno in quella «santificazione delle scorie» (13) in-differente che, con gesto uguale e contrario alla generalizzazione della distruzione e dell’indefinita riproduci- bilità, eleva a “bene culturale” (dunque meritevole della conservazione istituzionale) ogni oggetto che appaia “originale” (14). Il culto postmoderno (in realtà declinazione del con- sumismo e della ricerca di genealogie surrogatorie) e la retorica dell’originale non hanno niente a che fare con una reale attenzione al significato della tradizione che si incarnava nel modo d’essere dei territori, e che oggi ci è diventato per lo più inintelligibile. Anzi, que- sta musealizzazione entrata a far parte dei comportamenti di massa e che trova ampie ricadute a livello di iniziative e istituzioni rischia di essere la più subdola antitesi di un’idea di “conservazione” dell’identità culturale di un luogo. Liquidare semplicemente il retaggio del passato perché la sua conservazione sarebbe reazionaria o patetica di fronte alle a- dulte ragioni dell’economico, è nichilistico e autolesionistico. Non è possibile l’abitare in un mondo accettabile senza continuità di forme e tradizioni, né, tantomeno, pensare che esso possa possedere significati estetici, che non siano cosmetizzazione commerciale, in assenza di consapevolezza culturale: «senza memoria storica non ci sarebbe alcuna bel- lezza» (15), e al massimo, come scriveva Adorno, la natura può essere «parco naturale e alibi» (16).

  È necessario arrivare a considerare le modalità dell’abitare proprie (appropriate) a un luogo, ossia quelle di chi, vivendovi da tempi immemorabili ne ha distillato una sapienza estetica consequenziale e un’avvedutezza nell’uso e nel mantenimento delle risorse, an- che simboliche e immateriali. Il
bel paesaggio possiede «una bellezza non tanto intesa come espressione di valori estetici (paesaggistici o architettonici), quanto etici (con i quali si misura la qualità e l’identità di un insediamento» (17). D’altra parte, il problema della tutela e valorizzazione delle specificità culturali, ambientali e paesaggistiche locali non ha niente a che vedere con il “localismo” o il “provincialismo” (18), ma si colloca nell'o- rizzonte di un ripensamento critico della logica mondializzante della globalizzazione eco- nomica e del conseguente livellamento che omologa in un indistinto babelismo di forme, lingue e culture. In altri termini, per pensare il tema della singolarità dei luoghi (cioè di culture sempre situate), occorre tener fermo l’imprescindibile orizzonte di un mondo che la logica tecnoeconomica vorrebbe ridurre ad uno, a un uni-verso in cui le differenze sia- no annullate o rese inoperanti (appunto, al massimo mantenute allo stato larvale come immagini estetico-turistiche). Sarebbe vano pensare un aspetto senza l’altro. Occorre mantenere la consapevolezza dell’orizzonte nichilistico del mondo, senza illudersi di po- tersi rifugiare in qualche riserva o oasi di incontaminata autenticità, oppure in una dimen- sione estetica nella quale continueremmo, come se nulla fosse, ad avere percezioni e go- dimenti estetici nei termini di categorie estetiche o di poetiche elaborate due o tre secoli fa.
 
Oltre la fruizione nello sguardo, c’è il luogo in tutta la sua realtà complessa e sedimenta- ta di creazione e trasformazione culturale di lunga durata, sito di insediamento nel tempo di una comunità con i suoi simboli, le sue tradizioni, ritmi temporali, modalità dell’abitare e del coltivare, dell’aver cura e dell’abbellire, del dissipare e del tramandare: una realtà per cogliere la quale il solo registro estetico è troppo indeterminato e troppo incentrato sul polo del soggetto contemplante.

 

 


LA COMUNITÀ DI PAESAGGIO

  Il fuoco della questione sta nel modo di concepire l’
identità e la trasformazione di un luogo. Se si tratta semplicemente dell’aspetto che un luogo può assumere, indifferente- mente rispetto alla sua storia, tradizione, configurazione morfologica, a seconda delle mode e degli interessi economici, è possibile approntare una caratterizzazione estetica magari spiccata di un luogo, anche in assenza di un’identità culturale riconoscibile: basti pensare a molti centri delle Alpi italiane o delle campagne, venute di moda con la valo- rizzazione dei prodotti agricoli e gastronomici. In questi casi la conservazione o la mimesi di moduli estetici e architettonici del passato può anche produrre un allestimento estetico di buon effetto, gradevole, tale da selezionare un luogo nel circuito turistico e del consu- mo, senza che vi corrisponda alcuna profondità storica e culturale o espressione dell'inte- razione creativa e solidale di una comunità con il territorio. La rappresentazione di un'i- dentità estetica, in assenza delle condizioni culturali che l’avevano realizzata in altri tem- pi, è completamente fittizia, una semplice immagine di consumo; questa sì vera mitolo- gia del “locale” che, in quanto tale, non può che fornire l’illusione di un ritorno al buon tempo andato, sempre a portata di mano, mentre il mondo prosegue nel suo forsennato degrado (o nella sua auspicabile modernizzazione)(19).
  Se invece l’identità del paesaggio è pensata come risultato di una continuità coerente di atti territorializzanti, espressione armonica di un peculiare stile di insediamento (e dun- que di interazione con la natura) da parte di una cultura – non necessariamente autocto- na!(20) – anche la qualità estetica non potrà essere scissa, come un’efflorescenza artificia- le, dall’identità culturale. Non significa rivendicare fissità difensiva, chiusura automonu- mentalizzante, municipalismo etnicistico (21), quanto piuttosto riconoscibilità nell'inces- sante trasformazione, per la quale a buon diritto si può ricorrere all’idea fisiognomica per alludere alla manifestazione sempre singolare del
genius loci, al modo coerente ma sempre rinnovato del mantenersi in accordo con il carattere del luogo che una cultura sceglie di evidenziare. In questa prospettiva “tradizione” e “innovazione” non sono in insa- nabile contrasto: la continuità dello stile di una cultura (e dunque del suo modo di pro- durre-conservare paesaggio) si realizza attraverso innumerevoli atti di trasformazione, adattamento, riassetto; è quella “normale” dinamica nella quale una cultura si perpetua, sintetizzata efficacemente nell’espressione di Cervellati «la tradizione è un’innovazione riuscita».

  Si pone insomma il problema dell’elaborazione e del riconoscimento del paesaggio co- me spazio simbolico della
comunità insediata. È una questione che inevitabilmente si so- no posti anche gli urbanisti, proprio in relazione alla progettazione di forme di territorializ- zazione che non si limitino a una mera imbalsamazione dell’esistente o, per converso, alla nichilistica rassegnazione di fronte a un’omologazione azzerante. Se il paesaggio è crea- zione di un’intera cultura, di un intero popolo, la sua perpetuazione e incremento sono in relazione a ciò che, per esempio, Magnaghi chiama “la ricostruzione della comunità”(22). «La comunità che sostiene se stessa fa sì che l’ambiente naturale possa sostenerla nella sua azione»; ciò vuol dire che il primo requisito per mantenere la peculiarità di un paesag- gio è il non imporre sul luogo logiche economiche esogene ed estranee, modelli e ritmi di sviluppo che non tengono conto delle peculiarità locali.
  In realtà, il paesaggio è sempre l’indice del grado di realizzazione di una comunità della cultura con il luogo naturale e le sue possibilità. Da questo punto di vista, occorrerebbe estendere l’idea di comunità per allargarla a quel complesso vivente che è la “natura” di un luogo, oltre che a tutte quelle forme di presenza materiale (architetture, opere di colti- vazione, ecc.) e spirituale (tradizioni, saperi locali, ritualità, simboli) delle generazioni pre- cedenti sedimentate in un luogo, non meno che ai venturi, nei confronti dei quali terra e culture dovrebbero essere
normalmente pensate come un patrimonio da trasmettere nel- la sua integrità. In simile prospettiva, che ricomprende nella propria considerazione termi- ni concepiti di solito come eterogenei (con uno squilibrio tutto a favore dell’iniziativa pre- sente e puntuale e una trascuratezza – spesso vera e propria ignoranza – delle ragioni del passato, sia pure inscritte in ogni pietra o campo del paesaggio, nonché delle ripercussio- ni sul futuro), l’identità si trova ad essere pensabile come quella di una comunità di pae- saggio; dunque ogni considerazione volta a salvaguardare le “invarianti strutturali” o la matrice formale di un luogo, attivando direttive, progetti, misure di tutela e di valorizza- zione, dovrà riconoscerne “i caratteri identitari” (23) costituenti il carattere singolare e in- isostituibile di un luogo, non arrestandosi a semplici criteri di sostenibilità ambientale.
  Nel paesaggio è in gioco la sostenibilità ecologica e culturale della comunità allarga-  ta che in esso si realizza nello specifico “stile” che lo caratterizza in quanto singolarità. In questo senso, se di paesaggi si dovrebbe parlare solo al plurale, per sottolinearne la mol- teplice singolarità, questo comporta che la considerazione di un paesaggio sia ogni volta necessariamente incentrata sul suo carattere “locale”, ossia specificamente individuato in un territorio, e in precise coordinate storiche e temporali: il che significa che ogni paesag- gio “ha luogo” in precise coordinate e caratterizzazioni (naturali e stilistiche) spazio-tem- porali. Quando questo non accade più, al paesaggio è subentrata la delocalizzazione e  detemporalizzazione indotta dall’adozione di “matrici formali” uniformanti (quindi sradi- canti), che indubbiamente scardinano l’ordinamento simbolico, spirituale e spaziale del territorio in quanto creazione storica dotata di una sua riconoscibile identità formale, o detto sinteticamente, di una sua inconfondibile fisionomia.
  D’altra parte, il tempo del paesaggio non è quello che l’accelerazione tecnica impone a tutte le culture e i luoghi del mondo, stravolgendoli:  è una temporalità di lunga durata (quella del territorio come sistema vivente naturale) il cui corretto riconoscimento consen- te durata anche all’umano che si armonizza con esso. Dove le regole naturali non sono ri- spettate, i cosiddetti “dissesti” si ripercuotono innanzitutto sul paesaggio e lo spazio uma- no. Produzione di paesaggio (mantenimento e incremento del suo valore) non può darsi in assenza di consapevolezza e responsabilità ambientale, ma questa, da sola, non è suf- ficiente a mantenere l’identità del paesaggio-comunità.
 

 

 


 

 

__________________________


1 Per il concetto di “luogo” cfr. M. Heidegger,
Costruire, abitare, pensare, in Saggi e di- scorsi, tr. it. di G. Vattimo, Mursia, Milano 1976.
2 «Il concetto di tutela e valorizzazione presuppone che esso sia riferito a “beni” che pos- sono configurarsi come caratteri fondativi dell’identità locale, invarianti non per disposto normativo, ma nel senso che non sono variati nei tempi lunghi dei cicli di territorializzazio- ne e che riguardano sistemi ambientali, reti ecologiche, bacini idrografici, sistemi costieri, paesaggi storici, tipologie insediative territoriali e urbane caratterizzanti l’identità di lunga durata, tessuti agrari, modelli socioculturali, valori relazionali fra insediamento e ambiente e così via; caratteri la cui perdita o degrado può compromettere la sostenibilità dello svi- luppo, fondata appunto sull’assunzione di questi valori patrimoniali come risorse» (A. Ma- gnaghi,
Il progetto locale, Bollati Boringhieri, Torino 2000, p. 141. Di A. Magnaghi (a cura di), si vedano anche Il territorio dell’abitare, Angeli, Milano 19984 e Il territorio degl abi- tanti, Dunod, Milano 1998).
3 Cfr. A. Magnaghi,
Il progetto locale, cit., p. 140, dov’è riportato un interessante docu- mento della Regione Toscana.
4
Ivi, p. 141.
5 Affine è il concetto di “invarianti strutturali” di un territorio, locuzione che «allude alla possibilità/necessità di riconoscere i tratti fondativi delle identità dei luoghi che consento- no il loro mantenimento e crescita nei processi di trasformazione: non solo elementi di pregio, ma soprattutto morfotipologie territoriali e urbane interpretate come esito di pro- cessi coevolutivi fra insediamento umano e ambiente, caratteri del paesaggio, qualità  puntuali dei sistemi ambientali, sistemi economici e culturali a base locale, caratteri del paesaggio agrario, ecc., che possiamo nel loro insieme definire come
patrimonio territo- riale. Le “invarianti strutturali” sono dunque elementi (beni, tipi territoriali, relazioni fra siste- mi territoriali e ambientali ecc.) strutturanti il territorio, la sua identità, la sua salute, la sua qualità, il suo paesaggio, il suo potenziale come risorsa patrimoniale durevole» (Regione Toscana,1999, cit. in A. Magnaghi, Il progetto locale, Bollati Boringhieri, Torino 2000, p.140). Sull’idea di “matrice” formale, o di ordito che genera i possibili paradigmi di configurazio- ne del territorio, cfr. S. Muratori, Civiltà e territorio, cit., passim e L. Bonesio, Geofilosofia  del paesaggio, Mimesis, Milano 2001².
6 Avanzata, p. es., sia da A. Magnaghi che da P.L. Cervellati.
7 L’espressione si trova in P.L. Cervellati,
L’arte di curare la città, cit., p. 29.
8 E che deriva dall’interruzione della trasmissione del patrimonio “tradizionale”.
9 «La città e la campagna storica sono un luogo positivo, l’unico ad esprimere ancora un futuro. Esse devono continuare a manifestare quel processo di conoscenza e di memoria– di spazio e di tempo – capaci di costituire il paradigma per ri-fondare lo stesso aggregato urbano che si è realizzato negli ultimi trenta quarant’anni. È la periferia la zona che deve essere omologata al centro storico e alla campagna e non viceversa, com’è avvenuto fi- nora» (
ivi, p. 80).
10 «Il paesaggio non appartiene tanto alla sfera della “creatività”, quanto a quella della manutenzione. E del restauro inteso, come l’abbiamo inteso prima, quale restituzione» (P. L. Cervellati,
L’arte di curare la città, Il Mulino, Bologna 2000, p. 80).
11
Ivi, p. 90.
12 G. Chouquer,
L’étude des paysages. Essais sur leur formes et leur histoire, Ed.Erran- ce, Paris 2000, p. 121.
13 L’espressione si trova in B. Pedretti,
La democrazia estetica, in Id. (a cura di), Il proget- to del passato. Memoria, conservazione, restauro, architettura, Bruno Mondadori, Mila- no 1997, p. 9.
14 «Il bene culturale mette sullo stesso piano la roncola contadina, l’affresco rinascimenta- le, la basilica paleocristiana, il tetto a falda di una baita alpina e il sanitario avanguardi- stico, facendo diventare tutti i prodotti degli originali storico-artistici e tutti noi protagoni- sti a pari merito nell’immaginario Olimpo democratico»
(ibidem).
15 T.W. Adorno,
Teoria estetica, a cura di E. De Angelis, Einaudi 1975, p. 94.
16 Ivi, p. 99.
17 P.L. Cervellati,
L’arte di curare la città, cit., p. 30. Sul nesso possibile tra etica e pae- saggio rimane fondamentale l’indicazione heideggeriana sull’ethos come luogo dell'abi- tare (“il termine ‘etica’ vuol dire che con questo nome si pensa il soggiorno dell’uomo” ): M. Heidegger, Lettera sull’ “umanismo”, in Segnavia, ed. it. a cura di F. Volpi, Adelphi, Mi- lano 1987, p. 307. Sul tema, in diversa prospettiva, il recente contributo di M. Venturi Fer- riolo, Etiche del paesaggio. Il progetto del mondo umano, Editori Riuniti, Roma 2002.
18 Cercare di pensare la questione dello sradicamento planetario nell’epoca contempo- ranea e correlativamente la questione di quale appartenenza possa eventualmente an- cora darsi, dopo la consunzione degli stati nazionali e delle patrie, è impresa di ampia portata, sulla quale si sono impegnati pensatori del calibro di M. Heidegger, E. Jünger e C. Schmitt. Per una lettura della questione posta da Heidegger (ma non soltanto da lui), «di ciò che è ‘patrio’, ‘natale’, di come si debba intendere la ricerca di una ‘propria’ ter- ra o di un possibile ‘radicamento’ nell’epoca del Nichilismo», cfr. C. Resta,
Il luogo e le  vie. Geografie del pensiero in M. Heidegger, Angeli, Milano 1996: «Non si tratta di resusci- tarlo in un’immagine oleografica o da cartolina, né di perire e tacere con esso. Al filosofo spetta invece il compito di comprendere la necessità di questa sparizione, del venir meno della radicatezza, dell’appaesamento, della Heimat» (ivi, p. 12). Il tema dello sradica- mento moderno, e dei suoi effetti molto concretamente devastanti, lo si trova con altret- tanta efficacia in molti autori del Novecento, da C. Schmitt, a Simone Weil, all'economi- sta S. Latouche (Sulla questione dello sradicamento planetario e della perdita di singola- rità di luoghi e culture, cfr. i saggi contenuti nel volume Orizzonti della geofilosofia. Terra e luoghi nell’epoca della mondializzazione, a cura di L. Bonesio, Arianna, Casalecchio 2000).
19 Questo è anche il caso della produzione di scenari urbani “locali” nell’urbanistica e nel- l’estetica “postmoderne” (cfr.
Introduzione alla geografia postmoderna, a cura di C. Min- ca, Cedam, Padova 2001).
20 Per un’analisi critica del mito filosofico dell’autoctonia, cfr. C. Resta,
Il luogo e le vie, cit., cap. 2 “Radici” (che riprende, in forma ampliata, il saggio Il mito dell’autoctonia del  pensiero. Note su Hegel, Fichte, Heidegger, in M. Baldino, L. Bonesio e C. Resta, Geofilo- sofia, Lyasis, Sondrio 1996), e in generale tutto il volume.
21 A puro titolo indicativo, cfr. L. Bonesio,
Geofilosofia del paesaggio, Mimesis, Milano 1997 e 2001; Ead., Terra, identità, appartenenze, in Orizzonti della geofilosofia. Terra e luoghi nell’epoca della mondializzazione, cit.; Ead., Terra e identità, “La società degli individui”, 5, 1999; Riscoprire il senso del luogo, “Il Verde comunitario”, 1, 2000 (tr. fr. “Eléments”, 100, 2001). In una prospettiva analoga, cfr. C. Resta, 10 tesi di Geofilosofia, in AA.VV., Appar- tenenza e località. L’uomo e il territorio, SEB, Milano 1996; Ead., Il luogo e le vie. Geogra- fie del pensiero in M. Heidegger, cit.
22 A. Magnaghi,
Il progetto locale, cit., p. 91.
23 L’espressione si trova in A. Magnaghi,
Il progetto locale, cit., p. 141.