IDENTITÀ DEI LUOGHI
E TRADIZIONE
Come è possibile, oggi, nell’epoca della mondializzazione, pensare di
preservare dalla ondata omologante la singolarità
paesaggistica e identitaria dei luoghi? Infatti la
globa- lizzazione, che batte innanzitutto le strade
dell’economia e della tecnica, ha ripercussioni evidenti
anche a livello di organizzazione spaziale. La tendenza
a rendere somiglianti tutti i luoghi del mondo, a
dispetto delle loro diversità culturali e geografiche, è
resa pressoché irresistibile dalla potenza livellante
della tecnica: là dove essa arriva, tutte le forme del-
l’esistente subiscono una rifusione all’interno del suo
linguaggio in-differente, il pluriverso e la
differenziazione si trovano ad essere più o meno
rapidamente sostituiti dall’uni-formità, che spiana il
terreno a quell’altra potenza di deculturazione che è
l’economia di profitto. Inoltre, oggi la
virtualizzazione della realtà tende a dissolvere
definitivamente le tradizio- nali coordinate e il nostro
stesso modo di fare esperienza dello spazio. D’altra
parte tutto ciò non è che l’inevitabile conclusione
dello sforzo tecnologico del secolo che si è inge- gnato
a fare dei luoghi una
tabula rasa,
utilizzando i territori come spazi amorfi nei quali
dispiegare liberamente le strategie di pianificazione e
di massimizzazione economica: in effetti gli strumenti a
disposizione della tecnica sono così potenti da poter
riconfigurare secondo piani interamente artificiali
l’assetto dei luoghi, rendendoli funzionali alla logica
dell’economico, che necessariamente deve astrarre dalla
concreta particolarità delle si- tuazioni. La modernità
tecnoeconomica si è ingegnata a distruggere le
particolarità mor- fologiche e culturali, e già da molti
anni la progettazione del territorio avviene prescin-
dendo dalle specificità effettive, spezzando la
continuità di senso che individua un luogo lungo lo
scorrere del tempo e disarticolando il tessuto complesso
della sedimentazione territoriale che ne costituisce
l’identità fisiognomica. Così quella che oggi si dà a
vedere è un’immagine dei luoghi senza profondità né
sostanzialità storica; nella migliore delle ipo- tesi un
mero scenario, una rappresentazione estetica o una
semplice segnaletica di valori storici, tradizionali e
culturali per una rapida fruizione turistica.
Il presupposto dell’ideologia economicistica dello sviluppo è la libertà
dai vincoli, com- presi quelli rappresentati dalle
specificità locali e dalle tradizioni culturali: la
modernizza- zione è stata appunto la violenza sradicante
e livellante esercitata sull’intero pianeta in nome di
un dogma economico che si è potuta realizzare con
l’efficacia trasformatrice della tecnica. È sempre
ancora questa la giustificazione accampata per le
innumerevoli distruzioni perpetrate in suo nome,
comprese quelle rivolte al “territorio”, concepito, in
coerenza con i presupposti dell’ideologia economicistica,
come qualcosa di indifferente- mente appropriabile e
manomettibile, o quelle rivolte contro il patrimonio
culturale in no- me della presunta inarrestabilità delle
logiche economiche e degli imperativi della mo-
dernizzazione. Il “paesaggio” finisce allora per
diventare quel fastidioso inciampo che, da parte loro, i
responsabili della sua tutela (quando ci sono) spesso
concepiscono nei termi- ni di una museificazione
dell’esistente o di un ripristino filologico e
simulacrale di qualcosa che non esiste più, all’interno
di una dinamica in cui le immagini finiscono per
sostituirsi sempre di più al reale, virtualizzando e
desostanzializzando il mondo. Ma il prendere atto di
questo scenario non deve essere un alibi per liquidare
quel che rimane dell’identità dei luoghi, della loro
specifica e preziosa differenzialità paesaggistica e
dunque
culturale e identitaria; ma anziché partire dalla
presunta immodificabilità delle tendenze all'omolo-
gazione anche sul piano della gestione degli spazi
dell’economia globale, di fronte alla quali non ci
sarebbe salvezza, assumere la specificità locale come
quell’insieme di simbo- licità, territorialità, qualità
estetiche e comunitarie che dettano i modi, la misura e
i tempi della dimensione economica, in continuità con i
tratti identificanti della memoria territo- riale, con
la singolare fisionomia simbolica del paesaggio
culturale che vi si esprime.
Né si tratta di riconoscersi nella “verdolatria”
, in un ecologismo che riesce a pensare so- lo le
ragioni di una presunta naturalità ma fatica a
comprendere il carattere profonda- mente “culturale” del
paesaggio, l’intreccio pressoché indissolubile di
“ambiente” e “uo- mo” che si esprime nella forma e
nelle possibilità del “territorio”, quanto piuttosto di
acce- dere alla consapevolezza che al pensiero della
gestione territoriale, in termini politici, am-
ministrativi, progettuali, è mancata finora una
rappresentazione delle differenze, delle se-
dimentazioni storiche e temporali, degli aspetti
qualitativi, e anche di quei “colori”
e di quelle “figure” che compongono, con il loro gioco
di differenze, la realtà dell’insieme dei luoghi. Se
ogni paesaggio è una
località(1)
culturale, la manomissione della sua identità formale e
simbolica avrà come conseguenza non solo uno
stravolgimento dei valori este- tici, memoriali e
naturalistici, ma costituirà anche un attacco al sistema
di identificazione culturale, in quanto modalità
specifica e singolare di coappartenenza tra una
determina- ta forma di cultura e l’insieme
geografico-ambientale in cui è situata. Se ogni cultura,
na- scendo in un “paesaggio” e in una lingua,
dunque in un determinato universo di possibili- tà
simboliche, contrassegna in modo specifico e singolare
le forme del proprio luogo na- turale, così che è
possibile parlare di uno “stile” del paesaggio, è
evidente che l'alterazio- ne del rapporto di equilibrio
con l’ambiente o un intervento dissonante con la
fisionomia del luogo (ciò che registriamo come “degrado”
o
“aggressione” dei valori paesaggistici), lungi dal
potersi confinare nel campo marginale dell’estetica,
concerne le stesse condizio- ni dell’identità culturale
(dell’insieme e dei singoli).
Nel contesto tardomoderno in cui giungono al più alto livello la crisi e
l’insostenibilità di un modello di sviluppo basato sul
dogma di una crescita illimitata, e dunque sulla
riduzio- ne del territorio a estensione
indifferentemente manomettibile dalla tecnica e da
criteri di economicità dettati dalla globalizzazione, si
impone con urgenza la questione della di- struzione
irreversibile dei luoghi, ormai intesi prioritariamente
come depositi di risorse e spazi di utilizzazione
economica. Il territorio, in quanto realtà naturale e
ambientale, ha proprie regole di conservazione e
riproduzione (di lunga durata), le quali, se ignorate,
por- tano al dissesto e alla distruzione. I luoghi sono
sempre dotati di una propria “individuali- tà”
(che il geografo Vidal De La Blache chiamava la
“personalità” ) che costituisce pro- priamente la loro
facies
culturale, il loro essere “paesaggio”
prodotto
da comunità che ne rispettano la legge singolare di
configurazione e mantenimento. Se i luoghi si manten-
gono nella propria differenzialità singolare grazie a
continui atti territorializzanti – cioè a comportamenti
e scelte che conservano e incrementano il “senso”
della loro specificità, la questione della
“conservazione” non può che assumere un ruolo
centrale (2).
In altri termini, un luogo è tale solo se le sue “invarianti strutturali”
(3)
sono mantenute: se «i caratteri fondativi delle identità
dei luoghi», ossia gli elementi che strutturano il
territorio, sono riconosciuti nella loro natura di
“patrimonio territoriale” durevole. Secondo Magna- ghi
devono essere questi “caratteri identitari”, che
costituiscono il “valore
di un luogo”, a dettare «direttive, prescrizioni, azioni
per la tutela e la valorizzazione secondo obiettivi
prestazionali riferiti alla sostenibilità dello
sviluppo, dal momento che è la permanenza e la
durevolezza di tali caratteri a costituire l’indicatore
principale della sostenibilità»(4). Ogni tessuto
territoriale è un organismo complesso e delicato, non
riducibile a mero spa- zio disponibile per qualsiasi
intervento, bensì una plurima sedimentazione di
temporalità e intenzionalità simboliche e funzionali
diverse, scale e orientamenti differenziati che non si
sovrappongono o si elidono meccanicamente, come strati
inerti, ma piuttosto si armoniz- zano in una vitale
integrazione e collaborazione resa possibile dalla
presenza articolante e vivificante di una stessa
matrice(5) di interpretazione e configurazione spaziale
e simbo- lica. Solo da una lettura consapevole del
territorio locale, nelle sue interconnessioni glo- bali,
può essere compresa la straordinaria portata culturale,
civile e comunitaria (oltre che ecologica) di un modo
nuovo (in realtà tradizionalissimo) di intendere il
progetto e la realizzazione architettonica: come un
prendersi cura di tutto ciò che concorre alla vita della
irripetibile singolarità dei luoghi, nei loro tratti
paesistici, tradizionali, memoriali, diffe- renziali,
con la spontanea sollecitudine con la quale si cerca di
evitare il degrado, l'ab- bandono, l’imbruttimento, il
malfunzionamento della propria dimora.
Ogni cultura, finché è vivente e consapevole di sé, opera in accordo con
il nomos
dei luoghi
per poter fiorire e mantenersi, mentre la
contemporaneità mercantile e speculati- va, con una
caratteristica miopia, anche in fatto di gusto, finisce
con l’interrompere in modo tendenzialmente definitivo il
circolo virtuoso territorio-cultura, anche a partire dal
profondo misconoscimento dell’idea stessa di
“conservazione”. In questo contesto l'affer- mazione
della necessità di riconoscere ed elaborare uno “statuto
dei luoghi” (6),
da parte degli urbanisti, significa il riconoscimento
della necessità di mantenere “l’identità culturale del
territorio” (7),
a partire dall’individuazione di matrici formali che si
rivelano nella confi- gurazione temporale. Leggere il
tessuto storico, la conformazione territoriale
sottostante all’aspetto estetico, a sua volta realizzato
a partire dall’insieme delle possibilità di attiva-
zione simbolica insite nel luogo, è il passo preliminare
a qualsiasi operazione di pianifica- zione o intervento.
Non si dà paesaggio (ossia una realtà territoriale individuata da una
fisionomia culturale senza trasmissione di saperi, modi
e stili specifici di rapporto con il territorio (inteso
come il risultato di atti coerenti, anche se distribuiti
in un arco temporale magari molto lungo, di
territorializzazione): senza
tradizione.
Ma la tradizione, diversamente dall'accezione
imbal-samatoria ed eternizzante in cui per lo più suona
il termine (8), è un processo dinamico di selezione,
valorizzazione, adattamento del «patrimonio»
che
costituisce una cultura nella sua differenzialità, nel
mantenimento della riconoscibilità delle sue “matrici
formali” attra- verso l’incessante adattamento e
trasformazione della realtà territoriale: esse devono
po- ter costituire il più a lungo possibile il terreno
comune e il criterio fondamentale di ogni getto che
riguardi quel luogo. Non si tratta soltanto di un
restauro/ripristino dei “monu- menti”
o una
fossilizzazione di quanto del passato è sopravvissuto
all’ondata devastatrice del cosiddetto “sviluppo”
; al
contrario, è partendo dalla tradizione che diventa
possibile progettare per il futuro, rifondare la città a
partire da un correlativo recupero delle cam- pagne (9)
e da un privilegiamento del riuso e della manutenzione
delle strutture esistenti (10). Dunque la necessità di
un’emendazione del paesaggio dagli interventi e dagli
effetti di progettazioni miopi e devastanti: in molti
casi, non solo si può, ma
si dovrebbe
conce- pire il futuro come un ritorno allo statuto
intrinseco dei luoghi, «ristabilendo le condizioni
originarie dei luoghi deturpati […] Il bosco deve
ritornare ad essere un bosco, il prato un prato» (11).
“Conservare”
significa
tenere presso di sé (cum-serbare),
preservare nella cura, tratte- nendolo dalla sparizione,
ciò che si ha a cuore, dunque con un’intensità che può
concer- nere solo ciò che davvero conta per noi: tutto
il contrario dell’accezione freddamente museale,
asetticamente imbalsamatoria con la quale per lo più
risuona alle nostre orec- chie questa parola, e che
presuppone un automatico disinteresse e una subitanea
dimen- ticanza per quanto, essendo stato catalogato, può
essere abbandonato in un virtuale deposito di memorie da
cui sembra poter essere momentaneamente estratto ogni
volta che lo si voglia, magari da quelle istituzioni che
consentono la buona coscienza dell’oblio e della
distruzione, siano esse musei o parchi a tema, oppure
“riserve”
etnografiche
o ar- cheologiche di vario tipo. Una concezione tutta
moderna del “patrimonio”, che è l'inven- zione di un
tempo immaginario, costellato di monumenti
decontestualizzati cui si attribui- scono un significato
e un’ambientazione storica eterogenea, con l’invenzione
di una sor- ta di intemporalità. «Il nostro approccio
culturale al tempo riposa su due termini in ap- parenza
contrapposti, come se si trattasse di unire tramite
opposizione il fisso e il fluido, il passato
concentrato, immobile e ossessivo e il presente
mutevole, evolutivo o sfuggente. […] Sono valori falsi,
nozioni mutile […] invece di andare verso la complessità
delle eredi- tà e dei modi di divenire, che in ogni
epoca, incessantemente, collegano la mobilità e la
permanenza, si sono ripartiti i termini in modo
arbitrario: la permanenza è affare del pas- sato; la
fluidità e il mutamento sono questione del presente e
del futuro» (12). Un’eredità immobilizzata nell’ideale
intoccabilità museale non può che essere già da sempre
per- duta.
Invece, solo coloro che ereditano consapevolmente potranno accedere al
futuro: come scriveva Nietzsche, l’uomo dell’avvenire è
colui il quale è dotato di più lunga memoria; chi, si
potrebbe dire, ha le radici più profonde e ramificate,
saldamente piantate nel terre- no delle sue tradizioni.
A differenza di quanto ha pensato la cultura faustiana
dell'Occi- dente, non è nel nomadismo senza riferimenti
né orizzonti, nella scelta “oceanica”
dell'il-
limitato e
immisurabile che si trova la promessa dell’a-venire,
bensì in una rinnovata con- sapevolezza del proprio
orizzonte nella sua ineliminabile embricazione con gli
altri orizzon- ti, accessibili uno alla volta, nella
propria specificità: non quindi nella “grande discarica”
dell’omologazione, nel mercato dove si trovano i detriti
e le caricature di tutte le culture del mondo, e nemmeno
in quella «santificazione delle scorie» (13)
in-differente che, con gesto uguale e contrario alla
generalizzazione della distruzione e dell’indefinita
riproduci- bilità, eleva a “bene culturale” (dunque
meritevole della conservazione istituzionale) ogni
oggetto che appaia “originale” (14). Il culto
postmoderno (in realtà declinazione del con- sumismo e
della ricerca di genealogie surrogatorie) e la retorica
dell’originale non hanno niente a che fare con una reale
attenzione al significato della tradizione che si
incarnava nel modo d’essere dei territori, e che oggi ci
è diventato per lo più inintelligibile. Anzi, que- sta
musealizzazione entrata a far parte dei comportamenti di
massa e che trova ampie ricadute a livello di iniziative
e istituzioni rischia di essere la più subdola antitesi
di un’idea di “conservazione” dell’identità culturale di
un luogo. Liquidare semplicemente il retaggio del
passato perché la sua conservazione sarebbe reazionaria
o patetica di fronte alle a- dulte ragioni
dell’economico, è nichilistico e autolesionistico. Non è
possibile l’abitare in un mondo accettabile senza
continuità di forme e tradizioni, né, tantomeno, pensare
che esso possa possedere significati estetici, che non
siano cosmetizzazione commerciale, in assenza di
consapevolezza culturale: «senza memoria storica non ci
sarebbe alcuna bel- lezza» (15), e al massimo, come
scriveva Adorno, la natura può essere «parco naturale e
alibi» (16).
È necessario arrivare a considerare le modalità dell’abitare proprie
(appropriate) a un luogo, ossia quelle di chi, vivendovi
da tempi immemorabili ne ha distillato una sapienza
estetica consequenziale e un’avvedutezza nell’uso e nel
mantenimento delle risorse, an- che simboliche e
immateriali. Il
bel paesaggio
possiede «una bellezza non tanto intesa come espressione
di valori estetici (paesaggistici o architettonici),
quanto etici (con i quali si misura la qualità e
l’identità di un insediamento» (17). D’altra parte, il
problema della tutela e valorizzazione delle specificità
culturali, ambientali e paesaggistiche locali non ha
niente a che vedere con il “localismo” o il
“provincialismo” (18), ma si colloca nell'o- rizzonte di
un ripensamento critico della logica mondializzante
della globalizzazione eco- nomica e del conseguente
livellamento che omologa in un indistinto babelismo di
forme, lingue e culture. In altri termini, per pensare
il tema della singolarità dei luoghi (cioè di
culture sempre situate),
occorre tener fermo l’imprescindibile orizzonte di un
mondo che la logica tecnoeconomica vorrebbe ridurre ad
uno,
a un uni-verso in cui le differenze sia- no annullate o
rese inoperanti (appunto, al massimo mantenute allo
stato larvale come immagini estetico-turistiche).
Sarebbe vano pensare un aspetto senza l’altro. Occorre
mantenere la consapevolezza dell’orizzonte nichilistico
del mondo, senza illudersi di po- tersi rifugiare in
qualche riserva o oasi di incontaminata autenticità,
oppure in una dimen- sione estetica nella quale
continueremmo, come se nulla fosse, ad avere percezioni
e go- dimenti estetici nei termini di categorie
estetiche o di poetiche elaborate due o tre secoli fa.
Oltre
la fruizione nello sguardo, c’è il luogo in tutta la sua
realtà complessa e sedimenta- ta di creazione e
trasformazione culturale di lunga durata, sito di
insediamento nel tempo di una comunità con i suoi
simboli, le sue tradizioni, ritmi temporali, modalità
dell’abitare e del coltivare, dell’aver cura e
dell’abbellire, del dissipare e del tramandare: una
realtà per cogliere la quale il solo registro estetico è
troppo indeterminato e troppo incentrato sul polo del
soggetto contemplante.
LA COMUNITÀ DI PAESAGGIO
Il fuoco della questione sta nel modo di concepire l’identità
e la trasformazione di un luogo. Se si tratta
semplicemente dell’aspetto che un luogo può assumere,
indifferente- mente rispetto alla sua storia,
tradizione, configurazione morfologica, a seconda delle
mode e degli interessi economici, è possibile approntare
una caratterizzazione estetica magari spiccata di un
luogo, anche in assenza di un’identità culturale
riconoscibile: basti pensare a molti centri delle Alpi
italiane o delle campagne, venute di moda con la valo-
rizzazione dei prodotti agricoli e gastronomici. In
questi casi la conservazione o la mimesi di moduli
estetici e architettonici del passato può anche produrre
un allestimento estetico di buon effetto, gradevole,
tale da selezionare un luogo nel circuito turistico e
del consu- mo, senza che vi corrisponda alcuna
profondità storica e culturale o espressione dell'inte-
razione creativa e solidale di una comunità con il
territorio. La rappresentazione di un'i- dentità
estetica, in assenza delle condizioni culturali che
l’avevano realizzata in altri tem- pi, è completamente
fittizia, una semplice immagine di consumo; questa sì
vera mitolo- gia del “locale” che, in quanto tale, non
può che fornire l’illusione di un ritorno al buon tempo
andato, sempre a portata di mano, mentre il mondo
prosegue nel suo forsennato degrado (o nella sua
auspicabile modernizzazione)(19).
Se invece l’identità del paesaggio è pensata come risultato di una
continuità coerente di atti territorializzanti,
espressione armonica di un peculiare stile di
insediamento (e dun- que di interazione con la natura)
da parte di una cultura – non necessariamente autocto-
na!(20) – anche la qualità estetica non potrà essere
scissa, come un’efflorescenza artificia- le,
dall’identità culturale. Non significa rivendicare
fissità difensiva, chiusura automonu- mentalizzante,
municipalismo etnicistico (21), quanto piuttosto
riconoscibilità nell'inces- sante trasformazione, per la
quale a buon diritto si può ricorrere all’idea
fisiognomica per alludere alla manifestazione sempre
singolare del
genius loci,
al modo coerente ma sempre rinnovato del mantenersi in
accordo con il carattere del luogo che una cultura
sceglie di evidenziare. In questa prospettiva
“tradizione” e “innovazione” non sono in insa- nabile
contrasto: la continuità dello stile di una cultura (e
dunque del suo modo di pro- durre-conservare paesaggio)
si realizza attraverso innumerevoli atti di
trasformazione, adattamento, riassetto; è quella
“normale” dinamica nella quale una cultura si perpetua,
sintetizzata efficacemente nell’espressione di
Cervellati «la tradizione è un’innovazione riuscita».
Si pone insomma il problema dell’elaborazione e del riconoscimento del
paesaggio co- me spazio simbolico della
comunità
insediata. È una questione che inevitabilmente si so- no
posti anche gli urbanisti, proprio in relazione alla
progettazione di forme di territorializ- zazione che non
si limitino a una mera imbalsamazione dell’esistente o,
per converso, alla nichilistica rassegnazione di fronte
a un’omologazione azzerante. Se il paesaggio è crea-
zione di un’intera cultura, di un intero popolo, la sua
perpetuazione e incremento sono in relazione a ciò che,
per esempio, Magnaghi chiama “la ricostruzione della
comunità”(22). «La comunità che sostiene se stessa fa sì
che l’ambiente naturale possa sostenerla nella sua
azione»; ciò vuol dire che il primo requisito per
mantenere la peculiarità di un paesag- gio è il non
imporre sul luogo logiche economiche esogene ed
estranee, modelli e ritmi di sviluppo che non tengono
conto delle peculiarità locali.
In realtà, il paesaggio è sempre l’indice del grado di realizzazione di
una comunità della cultura con il luogo naturale e le
sue possibilità. Da questo punto di vista, occorrerebbe
estendere l’idea di comunità per allargarla a quel
complesso vivente che è la “natura” di un luogo, oltre
che a tutte quelle forme di presenza materiale
(architetture, opere di colti- vazione, ecc.) e
spirituale (tradizioni, saperi locali, ritualità,
simboli) delle generazioni pre- cedenti sedimentate in
un luogo, non meno che ai venturi, nei confronti dei
quali terra e culture dovrebbero essere
normalmente
pensate come un
patrimonio da trasmettere nel- la sua integrità. In
simile prospettiva, che ricomprende nella propria
considerazione termi- ni concepiti di solito come
eterogenei (con uno squilibrio tutto a favore
dell’iniziativa pre- sente e puntuale e una
trascuratezza – spesso vera e propria ignoranza – delle
ragioni del passato, sia pure inscritte in ogni pietra o
campo del paesaggio, nonché delle ripercussio- ni sul
futuro),
l’identità si trova ad essere pensabile come quella di
una
comunità di pae-
saggio;
dunque ogni considerazione volta a salvaguardare le
“invarianti strutturali” o la matrice formale di un
luogo, attivando direttive, progetti, misure di tutela e
di valorizza- zione, dovrà riconoscerne “i
caratteri identitari”
(23) costituenti il carattere singolare e in-
isostituibile di un luogo, non arrestandosi a semplici
criteri di sostenibilità ambientale.
Nel paesaggio è in gioco la sostenibilità ecologica e culturale della
comunità allarga- ta che in esso si realizza nello
specifico “stile” che lo caratterizza in quanto
singolarità. In questo senso, se di paesaggi si dovrebbe
parlare solo al plurale, per sottolinearne la mol-
teplice singolarità, questo comporta che la
considerazione di un paesaggio sia ogni volta
necessariamente incentrata sul suo carattere “locale”,
ossia specificamente individuato in un territorio, e in
precise coordinate storiche e temporali: il che
significa che ogni paesag- gio “ha luogo” in precise
coordinate e caratterizzazioni (naturali e stilistiche)
spazio-tem- porali. Quando questo non accade più, al
paesaggio è subentrata la delocalizzazione e
detemporalizzazione indotta dall’adozione di “matrici
formali” uniformanti (quindi sradi- canti), che
indubbiamente scardinano l’ordinamento simbolico,
spirituale e spaziale del territorio in quanto creazione
storica dotata di una sua riconoscibile identità
formale, o detto sinteticamente, di una sua
inconfondibile fisionomia.
D’altra parte, il tempo del paesaggio non è quello che l’accelerazione
tecnica impone a tutte le culture e i luoghi del mondo,
stravolgendoli: è una temporalità di lunga durata
(quella del territorio come sistema vivente naturale) il
cui corretto riconoscimento consen- te durata anche
all’umano che si armonizza con esso. Dove le regole
naturali non sono ri- spettate, i cosiddetti “dissesti”
si ripercuotono innanzitutto sul paesaggio e lo spazio
uma- no. Produzione di paesaggio (mantenimento e
incremento del suo valore) non può darsi in assenza di
consapevolezza e responsabilità ambientale, ma questa,
da sola, non è suf- ficiente a mantenere l’identità del
paesaggio-comunità.
__________________________
1 Per il concetto di “luogo” cfr. M. Heidegger,
Costruire,
abitare, pensare,
in Saggi e
di-
scorsi,
tr. it. di G. Vattimo, Mursia, Milano 1976.
2 «Il concetto di tutela e valorizzazione
presuppone che esso sia riferito a “beni” che pos- sono
configurarsi come caratteri fondativi dell’identità
locale, invarianti non per disposto normativo, ma nel
senso che non sono variati nei tempi lunghi dei cicli di
territorializzazio- ne e che riguardano sistemi
ambientali, reti ecologiche, bacini idrografici, sistemi
costieri, paesaggi storici, tipologie insediative
territoriali e urbane caratterizzanti l’identità di
lunga durata, tessuti agrari, modelli socioculturali,
valori relazionali fra insediamento e ambiente e così
via; caratteri la cui perdita o degrado può
compromettere la sostenibilità dello svi- luppo, fondata
appunto sull’assunzione di questi valori patrimoniali
come risorse» (A. Ma- gnaghi,
Il progetto locale,
Bollati Boringhieri, Torino 2000, p. 141. Di A. Magnaghi
(a cura di), si vedano anche
Il territorio
dell’abitare,
Angeli, Milano 19984 e
Il territorio degl abi-
tanti,
Dunod, Milano 1998).
3 Cfr. A. Magnaghi,
Il progetto locale,
cit., p. 140, dov’è riportato un interessante docu-
mento della Regione Toscana.
4 Ivi,
p. 141.
5 Affine è il concetto di “invarianti
strutturali” di un territorio, locuzione che «allude
alla possibilità/necessità di riconoscere i tratti
fondativi delle identità dei luoghi che consento- no il
loro mantenimento e crescita nei processi di
trasformazione: non solo elementi di pregio, ma
soprattutto morfotipologie territoriali e urbane
interpretate come esito di pro- cessi coevolutivi fra
insediamento umano e ambiente, caratteri del paesaggio,
qualità puntuali dei sistemi ambientali, sistemi
economici e culturali a base locale, caratteri del
paesaggio agrario, ecc., che possiamo nel loro insieme
definire come
patrimonio territo- riale.
Le “invarianti strutturali” sono dunque elementi (beni,
tipi territoriali, relazioni fra siste- mi territoriali
e ambientali ecc.) strutturanti il territorio, la sua
identità, la sua salute, la sua qualità, il suo
paesaggio, il suo potenziale come risorsa patrimoniale
durevole» (Regione Toscana,1999, cit. in A. Magnaghi,
Il progetto
locale,
Bollati Boringhieri, Torino 2000, p.140). Sull’idea di
“matrice” formale, o di ordito che genera i possibili
paradigmi di configurazio- ne del territorio, cfr. S.
Muratori,
Civiltà e territorio,
cit., passim e L. Bonesio,
Geofilosofia del
paesaggio,
Mimesis, Milano 2001².
6 Avanzata, p. es., sia da A. Magnaghi che da
P.L. Cervellati.
7 L’espressione si trova in P.L. Cervellati,
L’arte di curare
la città,
cit., p. 29.
8 E che deriva dall’interruzione della
trasmissione del patrimonio “tradizionale”.
9 «La città e la campagna storica sono un luogo
positivo, l’unico ad esprimere ancora un futuro. Esse
devono continuare a manifestare quel processo di
conoscenza e di memoria– di spazio e di tempo – capaci
di costituire il paradigma per ri-fondare lo stesso
aggregato urbano che si è realizzato negli ultimi trenta
quarant’anni. È la periferia la zona che deve essere
omologata al centro storico e alla campagna e non
viceversa, com’è avvenuto fi- nora» (ivi,
p. 80).
10 «Il paesaggio non appartiene tanto alla sfera
della “creatività”, quanto a quella della manutenzione.
E del restauro inteso, come l’abbiamo inteso prima,
quale restituzione» (P. L. Cervellati,
L’arte di curare la
città,
Il Mulino, Bologna 2000, p. 80).
11 Ivi,
p. 90.
12 G. Chouquer,
L’étude des paysages.
Essais sur leur
formes et leur histoire,
Ed.Erran- ce, Paris 2000, p. 121.
13 L’espressione si trova in B. Pedretti,
La democrazia estetica,
in Id. (a cura di),
Il
proget-
to del passato.
Memoria,
conservazione, restauro, architettura,
Bruno Mondadori, Mila- no 1997, p. 9.
14 «Il bene culturale mette sullo stesso piano la
roncola contadina, l’affresco rinascimenta- le, la
basilica paleocristiana, il tetto a falda di una baita
alpina e il sanitario avanguardi- stico, facendo
diventare tutti i prodotti degli originali
storico-artistici e tutti noi protagoni- sti a pari
merito nell’immaginario Olimpo democratico»
(ibidem).
15 T.W. Adorno,
Teoria estetica,
a cura di E. De Angelis, Einaudi 1975, p. 94.
16 Ivi, p. 99.
17 P.L. Cervellati,
L’arte di curare la
città,
cit., p. 30. Sul nesso possibile tra etica e pae- saggio
rimane fondamentale l’indicazione heideggeriana sull’ethos
come luogo dell'abi- tare (“il termine ‘etica’ vuol dire
che con questo nome si pensa il soggiorno dell’uomo” ):
M. Heidegger,
Lettera sull’ “umanismo”,
in Segnavia,
ed. it. a cura di F. Volpi, Adelphi, Mi- lano 1987, p.
307. Sul tema, in diversa prospettiva, il recente
contributo di M. Venturi Fer- riolo,
Etiche del paesaggio.
Il progetto del
mondo umano,
Editori Riuniti, Roma 2002.
18 Cercare di pensare la questione dello
sradicamento planetario nell’epoca contempo- ranea e
correlativamente la questione di quale appartenenza
possa eventualmente an- cora darsi, dopo la consunzione
degli stati nazionali e delle patrie, è impresa di ampia
portata, sulla quale si sono impegnati pensatori del
calibro di M. Heidegger, E. Jünger e C. Schmitt. Per una
lettura della questione posta da Heidegger (ma non
soltanto da lui), «di ciò che è ‘patrio’, ‘natale’, di
come si debba intendere la ricerca di una ‘propria’ ter-
ra o di un possibile ‘radicamento’ nell’epoca del
Nichilismo», cfr. C. Resta,
Il luogo e le
vie.
Geografie del
pensiero
in M. Heidegger,
Angeli, Milano 1996: «Non si tratta di resusci- tarlo in
un’immagine oleografica o da cartolina, né di perire e
tacere con esso. Al filosofo spetta invece il compito di
comprendere
la necessità di questa sparizione, del venir meno della
radicatezza, dell’appaesamento, della
Heimat»
(ivi,
p. 12). Il tema dello sradica- mento moderno, e dei suoi
effetti molto concretamente devastanti, lo si trova con
altret- tanta efficacia in molti autori del Novecento,
da C. Schmitt, a Simone Weil, all'economi- sta S.
Latouche (Sulla questione dello sradicamento planetario
e della perdita di singola- rità di luoghi e culture,
cfr. i saggi contenuti nel volume
Orizzonti della
geofilosofia. Terra e luoghi nell’epoca della
mondializzazione,
a cura di L. Bonesio, Arianna, Casalecchio 2000).
19 Questo è anche il caso della produzione di
scenari urbani “locali” nell’urbanistica e nel-
l’estetica “postmoderne” (cfr.
Introduzione alla
geografia postmoderna,
a cura di C. Min- ca, Cedam, Padova 2001).
20 Per un’analisi critica del mito filosofico
dell’autoctonia, cfr. C. Resta,
Il luogo e le vie,
cit., cap. 2 “Radici” (che riprende, in forma ampliata,
il saggio Il
mito dell’autoctonia del
pensiero. Note
su Hegel, Fichte, Heidegger,
in M. Baldino, L. Bonesio e C. Resta,
Geofilo-
sofia,
Lyasis, Sondrio 1996), e in generale tutto il volume.
21 A puro titolo indicativo, cfr. L. Bonesio,
Geofilosofia del
paesaggio,
Mimesis, Milano 1997 e 2001; Ead.,
Terra, identità,
appartenenze,
in Orizzonti
della geofilosofia. Terra e luoghi
nell’epoca della
mondializzazione,
cit.; Ead.,
Terra e identità,
“La società degli individui”, 5, 1999;
Riscoprire il senso del
luogo,
“Il Verde comunitario”, 1, 2000 (tr. fr. “Eléments”,
100, 2001). In una prospettiva analoga, cfr. C. Resta,
10 tesi di
Geofilosofia,
in AA.VV.,
Appar-
tenenza e
località. L’uomo e il territorio,
SEB, Milano 1996; Ead.,
Il luogo e le vie.
Geogra-
fie del pensiero
in M. Heidegger,
cit.
22 A. Magnaghi,
Il progetto locale,
cit., p. 91.
23 L’espressione si trova in A. Magnaghi,
Il progetto locale,
cit., p. 141.
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