Come
unica premessa, prego il lettore di non mai perdere d’occhio
il seguente aforisma di Fran-çoise Choay,
storico della città e dell’urbanistica
(1):
‘Au
plan de la théorie comme à celui de la pratique, le
dilemme destruction/conservation ne peut être tranché
dans l’absolu, que le quoi et le comment de la
conservation ne comporte jamais une solution -
juste et vraie - mais des solutions alternatives,
d’une pertinence relative’.
Il
fatto
La Pobbia è una masseria del
Mendrisiotto risalente al Quat- trocento. Questo grande edificio è stato da poco smontato, trasferito e
ricostruito al Museo all’aperto del Ballenberg. In questo museo dedicato alla civiltà contadina della
Svizzera – ed in particolare alle dimore ed alle
strutture utilitari e che caratterizzavano le diverse
regioni – La Pobbia farà parte del cosiddetto
‘Quartiere ticinese’ destinato ad accogliere gli e- difici ritenuti più rappresentativi del nostro
cantone.
Per preparare quest’operazione,
l’intera costruzione è stata rilevata con i più
moderni si- temi digitali dall’Istituto di catalogazione, rilievo e restauro dei beni culturali. I
pavimenti, i soffitti, i muri, i contrafforti, le scale,
le logge, le aperture, le nicchie, la carpenteria del tetto, i camini e i comignoli sono stati misurati,
quotati, disegnati in pianta, in facciata, in sezione e
fotografati. Parallelamente, prima e durante la
demolizione, il Servizio archeolo- gia dell’Ufficio
cantonale dei beni culturali ha eseguito numerosi
sondaggi e, con l’aiuto di un geologo, ha proceduto
alla determinazione del materiale murario costituito da
pie- trame di diversa provenienza e da laterizi. I
restauratori hanno eseguito lo strappo della sola
immagine devozionale ritrovata e l’analisi dei vari
strati di pitture decorative esegui- te con il rullo di
gomma nella prima metà del secolo scorso. La storica
Stefania Bianchi ha analizzato la folta documentazione
inerente la masseria raccolta nei fondi Turconi e del- l’Ospedale
della Beata Vergine(2).
La masseria è stata ricostruita così
come è stata trovata, ossia con tutte le aggiunte, i ri-
facimenti e le modernizzazioni eseguite sino nel XX
Secolo. Fa eccezione soltanto l’im- pianto elettrico
installato a partire dagli anni Venti. Assieme alle
porte arcuate risalenti al Quattrocento – messe a giorno
dai sondaggi archeologici – sono stati rifatti anche i
mo- derni soffitti di putrelle, di mattoni e di cemento
e le altrettanto moderne mangiatoie di cemento e di ferro. Essendo stati rubati, gli scalini di recupero provenienti da
due scale a chiocciola –
utilizzati per
costruire la scala che sale al piano superiore della
grande biga- tèra(3) – sono stati sostituiti da altri scalini di recupero di
un edificio ottocentesco di Stabio da poco
ristrutturato.
Il
Ballenberg è un museo
Da
qualche decennio i musei si stanno trasformando da
simboli dell’identità e del potere di una nazione in
custodi di patrimoni culturali che appartengono a tutta
l’umanità. Alla realizzazione di questo lodevole
obiettivo fanno resistenza i musei più prestigiosi. Così,
no- nostante qualche ammodernamento, il Museo della
Civiltà Minoica di Iraklion, il British Museum di Londra
e la Galleria degli Uffizi di Firenze appaiono ancora
come polverosi e spesso repellenti depositi dove il
valore culturale della collezione sembra dipendere dal
numero degli oggetti esposti. Per contro, i nuovi musei
propongono spazi, percorsi e temi didatticamente sempre
più attrattivi(8).
Oltre a
mostrare le dimore e gli edifici utilitari della cultura
contadina prima della mecca- nizzazione
dell’agricoltura, al Ballenberg si ricostruiscono con
precisione antropologica gli arredamenti dei locali, si
producono gli antichi materiali di costruzione (dalla
calce alle scandole(9),
si coltivano quei vegetali e si allevano quegli animali
che costituivano la ra- gione d’essere di queste
strutture, si tengono corsi di restauro per artigiani e
per ricercato- ri, si discute a cantiere permanentemente
aperto di come organizzare un museo o di co- me
salvaguardare quei territori e quegli insediamenti
considerati patrimonio culturale.
Il Ballenberg non è una Swiss
Miniature e neppure una Disneyland. Quest’ultime sono strut- ture turistiche a scopo commerciale che hanno come
unici obiettivi il passatempo e
il di- vertimento(10)
dei loro visitatori in ambienti di pura fantasia fatti
di cartapesta o di fibra di vetro dipinta, sonorizzati e
illuminati artificialmente, con animali e piante
costruiti e mossi meccanicamente. Il Ballenberg non è
neppure comparabile al ‘Village Suisse’ co- struito in
occasione dell’Esposizione nazionale di Ginevra del 1896
e neppure a quel ‘Pue- blo español’ che si può
ancora visitare a Barcellona. In questo caso si tratta
di copie o di invenzioni di edifici antichi accorpate in
un unico prospetto chiamato a rappresentare in un luogo centrale quei monumenti della cultura popolare di
un’intera nazione ritenuti particolarmente
scenografici. Questi complessi edilizi ospitano
generalmente ristoranti o negozi che propongono gli oggetti dell’artigianato tradizionale delle
rispettive nazioni(11)
Il senso
«Se penso allo
stato di degrado in cui vedevo La Pobbia ogni qualvolta
ci passavo da- vanti, meglio che vada al Ballenberg, in
un bel posto, ricostruita come l’abbiamo vissuta noi da
giovani con i nostri genitori». Così si è espressa una
delle abitanti la masseria anco- ra vivente, figlia del
penultimo fittavolo del Venerando Ospedale Beata Vergine
di Men- drisio. Al di là di questa affermazione
consolatoria per chi, come il sottoscritto, ha parte-
cipato ai preparativi per il trasferimento della
masseria al Ballenberg, è più che legittimo porsi la
domanda del senso da dare a questa operazione.
Per rispondere a
questa domanda ritengo che non si debba riesumare la
vecchia
‘querel-le
entre Ruskin et Viollet-le-Duc sur les procédures et
objectifs de la conservation’
(12), ossia tra chi propone la ‘buona morte’ di tutti
quei beni culturali che hanno perso la loro funzione e
chi propone la loro conservazione-trasformazione in
oggetti immaginari, ideali e astrat- ti. Per capire il
senso dell’operazione di trasferimento della Pobbia al
Ballenberg basta far capo alle categorie elencate da
Aloïs Riegl per giustificare il valore monumentale di un
e- dificio: le categorie della memoria e
dell’attualità(13).
La
memoria
Attualmente, la tendenza degli archeologi e dei conservatori dei beni
culturali è quella di mantenere inalterati nel loro
stato di naturale degrado i manufatti e gli oggetti assegnati
alle loro cure. Infatti, scavare e restaurare comportano
sempre la distruzione di una parte della materia di cui
sono costituiti. Oggi questa materia si presenta ancora
muta perché non sappiamo ancora su cosa e come
interrogarla.
Questa memoria ancora nascosta nella
materia è particolarmente preziosa quando è la sola
testimone della storia del manufatto. A partire
dall’Alto Medioevo, e con l’avvicinar- si ai nostri
giorni, i documenti scritti e iconografici si sono
moltiplicati esponenzialmente. Se – dapprima – gli
oggetti e i manufatti erano solo citati, essi vengono
successivamente descritti, poi disegnati, catalogati per
forme e per funzioni, rilevati in tutti i dettagli, foto- grafati,infine filmati e memorizzati elettronicamente
tanto da poterli ricostruire virtual-mente.
La Pobbia ha conosciuto il suo
apogeo a metà del Novecento
–
al momento della mas- sima
espansione della sericoltura
– in un' epoca, dunque, dove
le testimonianze docu- mentali sono già più ricche di
quelle che potrebbero fornirci l’analisi archeologica,
quella strutturale e quella costruttiva. Inoltre, nel
nostro caso la demolizione permette di acce- dere a
molte più testimonianze che non il restauro. D’altra
parte, la sua fedele ricostruzio- ne garantisce più
memorie visive, sonore, olfattive e tattili di quelle
della ‘buona morte’ o della ristrutturazione in loco
della masseria.
L’attualità
Una masseria della collina lombarda può vantare un alto
‘valore d’uso’(14).
In questo caso il valore d’uso
del monumento non risiede nell’esplicare quelle funzioni
per le quali questa masseria era stata costruita, bensì
nel già citato valore pedagogico e didattico delle mille
storie che un manufatto di questo tipo riesce a
raccontare, anche se ricostrui- to(15):
la propria storia edilizia; la storia del modo di
abitare e di produrre nel Novecento, ossia in un momento
di transizione dalla società agricola a quella
industriale; la storia stessa
dell’industrializzazione per il tramite di uno dei suoi
casi più significativi: la sericoltu- ra e il
capitalismo delle campagne; la storia della mezzadria;
la storia della propria deca- denza; la storia delle
famiglie che l’hanno abitata; la storia dell’industria
dei laterizi nel Mendrisiotto;
la storia del vino e dei modi di coltivare la vigna; la
storia delle pitture deco- rative eseguite con rulli di
gomma; la storia del passaggio dall’agricoltura all’allevamen-
to, dalla sericoltura alla tabacchicoltura; la storia
del latifondo lombardo, ecc.,
ecc.
Il nuovo uso museale della masseria costringe a fare
delle scelte che prediligono solo al- cune testimonianze
e ne escludono delle altre. Per ora, la Pobbia
racconterà la storia del- la sua evoluzione edilizia,
quella degli ultimi fittavoli, dell’allevamento dei
bachi da seta, delle pitture decorative eseguite con il
rullo di gomma e quella della sua decadenza. In- fatti,
si è deciso di conservare una delle stanze decorata con
il logo della Coca Cola di- segnato grossolanamente
sullo sfondo rosso vivo della parete(16).
La Pobbia è stata an- che questo e, a metà di questo
primo secolo del Terzo Millennio, l’abbeveratoio semi
au- tomatico in metallo delle mangiatoie di cemento ed
il logo della Coca Cola faranno già parte della storia,
anche di quella della civiltà contadina.
La ricchezza
delle storie e il numero considerevole di persone a cui
saranno raccontate (17) compensano di gran lunga gli
aspetti negativi della decontestualizzazione geografi-ca
della masseria (18). L'autenticità di un manufatto e il
suo mantenimento
in loco
diven-tano dei
feticci quando conducono alla scomparsa fisica del
monumento o al suo avvili-mento in un contesto diventato
ormai estraneo alla sua genesi ed alla sua funzione.
Le alternative
In un articolo
pubblicato sul settimanale AREA, Tita Carloni ha
elencato quattro possibili destini per un monumento
storico: La ‘morte naturale’
come è stata teorizzata da Ruskin (19), la
‘morte assistita’(20)
e l' ‘imbalsamazione’
in loco
o altrove (21).
Certo. Si poteva conservare la masseria
in loco
integrandola in un percorso museogra- fico regionale e
applicando gli stessi criteri di conservazione adottati
nella sua ricostruzio- ne. In questo caso, in pochi
anni, avremmo ritrovato un edificio isolato nel bel
mezzo di un’area occupata a pelle di leopardo con
moderne strutture di servizio, di produzione e di
trasporto che l’avrebbero annichilita tanto quanto lo
era già a causa dell’abbandono.
Una quinta
alternativa, non contemplata dal Carloni, sarebbe stata
quella di riutilizzare la masseria come struttura
agricola o con altre funzioni. Ciò avrebbe comportato
ammo-dernamenti e ristrutturazioni molto incisive e
certamente più distruttive della sua demoli-zione e
ricostruzione.
Al Ballenberg
piuttosto che a Novazzano? Perché no se si crede che
questi oggetti ap-
partengono alla storia
dell’umanità e non soltanto a quella del Ticino, che
parlano e par- leranno sempre una loro lingua propria e
nessun altro idioma, neppure quello del luogo che le
ospita.
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