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 ZEFFIRO CIUFFOLETTI

 

IL PAESAGGIO AGRARIO    

 




  Il paesaggio, dove sono impresse le tracce e i segni del tempo, è l’espressione più comples- sa e profonda della civiltà di un popolo. Ogni società lascia un’impronta di sé nel paesag- gio. Non si tratta solo degli sforzi per piegare la natura alle esigenze vitali degli uomini e quindi della costruzione materiale del paesaggio. Nel paesaggio, nella sua trama più inti-, ma, sono iscritte tante cose impalpabili come le passioni degli uomini passati, il loro stesso modo di pensare il paesaggio, che è il modo di pensare la vita e la natura, il bello e il diver- so, l’effimero e l’eterno (E. Turri). In sostanza gli uomini iscrivono nel paesaggio l'atteggia- mento verso la vita e verso il mondo e quindi nel paesaggio si trova il senso di una intera ci- viltà.
  Il paesaggio toscano è fra i più celebrati del mondo e non vi è alcun dubbio che il bene culturale più importante della Toscana, pur ricchissima di arte e di cultura, sia rappresentato dal paesaggio. Proprio i visitatori stranieri colti che nel passato hanno visitato la penisola, tappa obbligata del
«gran tour», per cercare le radici della civiltà europea, hanno contri- buito ad affermare nell’immaginario internazionale quel paradigma della Toscana come l’«Italia dell’Italia», scorgendo nell’equilibrio del suo paesaggio la fusione tra arte, natura e civiltà.
  Un paesaggio, quindi, capace di evocare suggestioni profonde fino a farlo paragonare a
«un’opera d’arte» costruita «da un popolo raffinato, quello stesso che ordinava nel Quat- trocento ai suoi pittori dipinti e affreschi»(H. Desplonques).
  Negli ultimi decenni, in Toscana come altrove, il paesaggio ha subito delle trasformazioni intense e, spesso, delle gravi deturpazioni. L’abbandono delle campagne e la fine del siste- ma mezzadrile hanno fatto comprendere quanto proprio l’agricoltura mezzadrile avesse contribuito a creare nella sua vicenda plurisecolare gli incomparabili tratti armoniosi, di for- me e di colori, del paesaggio toscano. La ripresa dell’agricoltura toscana, grazie alla straor- dinaria vitalità della vitivinicoltura, il recente sviluppo dell’agricoltura biologica, l’estendersi del fenomeno dell’agriturismo, e infine una estesa presa di coscienza del grande valore rap- presentato dall’ambiente e dal paesaggio possono offrire un sicuro presidio nella difesa di questo patrimonio.
  La Toscana presenta una gamma completa di forme morfologiche dalle montagne ap- penniniche alle valli interne, dalle pianure alle coste marine. Esse costituiscono le forme del palcoscenico, le
«linee d’appoggio», (L. Febvre) su cui si impiantano gli insediamenti, le cit- tà, le campagne e le più varie attività dell’uomo. Ma quando si pensa al paesaggio tosca- no si pensa alla casa colonica sul poggio, alle fattorie, alla fitta trama di antiche città e cit- tadine con mura, torri e campanili, alle campagne «vitate e pomate», alla vite e all'olivo. Questo significa che l’agricoltura ha svolto un ruolo primario nella formazione del pae- saggio toscano, anche se la Toscana resta pur sempre dall’eredità tardo-romana al medioe- vo (G. Cherubini) una terra di città, oppure come si è detto una «campagna urbanizzata».
  Già nel Trecento il Boccaccio poteva osservare che le colline intorno a Firenze erano così piene di ville e case coloniche che se si fossero
«raunate insieme» avrebbero costituito un'al- tra Firenze. In realtà la «mano invisibile» che ha costruito attraverso un processo plurisecola- re il paesaggio agrario toscano si chiama mezzadria. Fu la mezzadria a plasmare il paesag- gio collinare, diventato quello più espressivo, «più emozionante e più bello» dell’intero spa- zio regionale. Con l’introduzione della mezzadria, prima nel contado fiorentino e in quello senese e poi nel resto della Toscana valliva, si verificò una progressiva sistemazione ed esten- sione dello spazio agrario entro un quadro di relazioni assai strette con il sistema di città e cittadine che costituivano la ricchezza culturale ed economica di una regione che già in epoca medievale poteva essere definita la più urbanizzata d’Europa.
  La mezzadria si diffuse così rapidamente nel sistema collinare centrale della Toscana, che un grande storico del Medioevo ha potuto affermare che
«ad ogni nucleo familiare inserito in maniera non precaria nella vita della città, corrispondevano uno o più nuclei contadini inseriti sul podere, dal quale dovevano uscire il minimo vitale per il mezzadro e almeno i ge- neri di sussistenza per ‘l’ospite cittadino’, a cui la generosità della terra e la fatica dei lavo- ratori assicuravano i vantaggi della ‘vita civile’» (E. Conti). Furono i borghesi e i signori di cit- tà ad investire nella mezzadria, ma furono i mezzadri con il loro quotidiano lavoro a doma- re il terreno, a plasmarlo per accogliere le varie colture di cui aveva bisogno la famiglia mezzadrile e quella del padrone: i cereali, il vino, l’olio, ma anche i formaggi, la lana, la ca- napa, il lino, la castagna ecc.
  Fin dalle origini, accanto ai poderi, dove vivevano i contadini, nelle campagne toscane contigue alle città si ergevano numerose dimore signorili, che venivano usate per
«villeggia- tura» e che, a partire dal ‘500-‘600, con la decadenza delle manifatture urbane e dell'eco- nomia mediterranea, assunsero funzioni di «fattoria». Prese forma, allora, il sistema di fatto- ria, cioè una organizzazione centralizzata del sistema mezzadrile, prima sul piano ammini- strativo poi via via su quello gestionale e produttivo. Accanto alle residenze padronali si co- stituirono le componenti paesistiche collegate con le funzioni ludiche e il gusto delle classi dominanti: giardini all’italiana, statue, boschi artificiali, parchi e bandite di caccia, «ragna- ie», «paretai», «uccellari»; ma anche strutture produttive: tinaie, cantine, orciaie, caciaie, ecc.
  Sorsero anche le strutture collegate alla religiosità contadina: cappelle, oratori, tabernacoli lungo le strade e all’ombra dei cipressi. Proprio questi ecosistemi artificiali, organizzati nelle costellazioni dei poderi intorno alle fattorie, hanno conferito al paesaggio toscano quell'a- spetto mirabile di equilibrio e di armonia che ne fa ancora oggi una regione unica e incon- fondibile.
  Si è trattato di un processo plurisecolare durante il quale il paesaggio dell’agricoltura pro- miscua collinare si è spinto fino a Sud nelle crete senesi e nelle pianure maremmane e fino ai margini inferiori dei crinali montuosi. Questa agricoltura fondata sulla consociazione delle piante arboree e arbustive con i cereali a altri semipanizzabili, per non parlare delle fave, dei fagioli e dei lupini, ha rappresentato il regno della vite e dell’olivo. L’olivo ha seguito quasi sempre in stretta compagnia con la vite l’espandersi di questa umanizzazione dell'am- biente, ne ha rappresentato il più solido avamposto nello spazio e nel tempo, diventando il simbolo e il segno dell’opera umana di colonizzazione e di incivilimento nel segno del cri- stianesimo. Come nel sacro e nel profano il vino e l’olio sono diventati la base del robusto zoccolo delle tradizioni enogastronomiche toscane, l’alfa e l’omega di una cultura dell'ali- mentazione che si è articolata nei sublimi esperimenti della corte medicea, così come nelle varie e multiformi tradizioni alimentari del mondo contadino, tutte all’insegna del pane, del- l’olio, dei fagioli e della semplicità.
  Se l’olivo non si è staccato dalle aree collinari e dalle costiere marine, la vite si è spinta in alto, seguendo i monaci e le chiese persino nelle aree montane, e con i suoi filari a forma 
«intrecciata», «a pergolo», «a catena»
, anche nelle pianure. Tutti e due, l’olio e la vite, non si sono fermati nemmeno davanti alle mura delle città. Le hanno scavalcate per spingersi nei giardini e negli orti dei monasteri e dei palazzi signorili, creando un continuum fra città e campagna.
  La vite e l’olivo rappresentano l’elemento di maggiore continuità nella storia toscana, sia da un punto di vista culturale che produttivo. Nel Montalbano, nel Chianti, nella Val di Sie- ve, nel Valdarno di Sopra e di Sotto, nella Val di Pesa e nella Val d’Elsa la vite e l’olivo as- sunsero fin dal Settecento un ruolo predominante negli ordinamenti produttivi, grazie anche al diffuso riconoscimento della specifica vocazione territoriale sancita persino ufficialmente nel celebre «bando» di Cosimo III dei Medici del 1716, che perimetrava le prime aree vinicole il cui pregio era garantito dallo Stato granducale.
  La notevole adattabilità della mezzadria, pur nel rigido sistema sociale che la caratterizza- va, permise all’agricoltura toscana di accogliere le colture industriali dal tabacco alla bar- babietola da zucchero, e grazie al sistema di fattoria, di rispondere alle esigenze del merca- to, al quale era diretta gran parte della produzione di parte padronale. Al culmine della sua evoluzione, intorno al 1930, il sistema di fattoria si era esteso ad oltre il 40% della superficie a- graria toscana per un complesso di 4121 fattorie e di 49.000 poderi, ma ormai erano sempre più evidenti le difficoltà di un sistema di conduzione che ostacolava la modernizzazione e, nonostante la restaurazione contrattuale fascista, era sempre più anacronistico con le aspi- razioni sociali dei mezzadri.
  Le fotografie più antiche, che ho pubblicato in una serie di monografie edite da Alinari, ci restituiscono il volto del paesaggio e degli uomini dell’universo mezzadrile toscano. Le foto più recenti, invece, ci permettono di cogliere la proiezione dinamica di un sistema agricolo che non ha stravolto i tratti del paesaggio mezzadrile, ma che ormai si proietta verso il futu- ro con i suoi settori di punta: la vitivinicoltura, l’olivicultura, l’agricoltura biologica e l'agri- turismo.
  Il problema odierno è quello di conciliare il presente con il passato, ora che tutto è cam- biato e ancora sta cambiando.
  La questione non è tanto conservare, quanto mantenere i tratti di continuità con la civiltà espressa e impressa nella storia del paesaggio toscano. Il paesaggio sarà, così, quello che noi oggi, la nostra civiltà contemporanea, vorrà che sia non solo nella sua dimensione este- tica e funzionale, ma, per così dire, nella sua dimensione umana e sociale. Se noi smarriremo del tutto il senso della misura, dell’equilibrio, delle proporzioni, dell’armonia che ci viene dal passato, noi non riusciremo non solo a conservare, ma nemmeno a creare un rapporto con il paesaggio che sia di rispetto e di consapevolezza dei problemi che una moderna conce- zione del paesaggio comporta per tutti noi. Persino le infrastrutture più moderne si possono conciliare con un uso razionale del territorio, inteso però non come fondale delle vicende u- mane, ma come «teatro vivente» delle generazioni che si succedono nel tempo e che nel paesaggio lasciano i segni del loro passaggio.