GUIDO MORETTI

 

   PAESAGGIO E INSEDIAMENTI. IL CASO DELL'AMBIENTE ALPINO     

 

 

 



 

La superficie territoriale dell’Italia è formata da monta- gne e colline per oltre i 4/5 della  sua estensione comples- siva: proprio per questo le grandi forme paesaggistiche che vi si  sono organizzate e stratificate nel tempo presen- tano particolari motivi di interesse, dato che le necessità derivanti dalle coltivazioni, dal tracciato delle strade e dell'habitat, hanno dovuto quasi per forza dar luogo ad una completa rimodellazione del suolo, spesso attraverso il raggiungimento di fragili equilibri tra ambiente naturale e ambiente costruito.

 

Emilio Sereni, considerato il padre degli studi sul paesaggio agrario, giustamente sottoli- nea questo aspetto del paesaggio italiano, contrapponendo «l’orientamento quasi esclu- sivamente "orizzontale" sul quale si snoda la varietà dei paesaggi agrari in paesi come la Francia, la Germania o gli Stati Uniti» alla decisa rilevanza che in un paese come il nostro – con le sue terre a coltura inerpicate ben oltre i mille metri di altezza, con i suoi terrazza- menti e con tutta la varietà delle sue sistemazioni collinari e montane – viene ad assume- re la "struttura verticale" del paesaggio.

 

L’argomento offre numerosi spunti di approfondimento.

Dalla mercificazione del paesaggio, che lo consuma anche senza distruggerlo fisicamen- te, alla tutela di questo paesaggio, come opera d’arte collettiva, anonima e mai conclu- sa, mutevole nel tempo e ogni giorno più preziosa perché sempre più ridotti ne sono i tratti di integrità che la macchina tecnologica lascia dietro di sé. E per “integro” non si vuole intendere necessariamente “non costruito”.

Ciò equivale ad interrogarsi sul perché l’eredità di una tradizione gloriosa e tenace (ma anche scomoda perché riferita a un’etica del vivere e del costruire che ci è ormai estra- nea), sembra aver appiattito la capacità di progettare – e costruire – in montagna, pro- prio oggi che la modernità ci avrebbe affrancato dalla fatica di costruire in montagna.

Né vanno ignorati i problemi di un’economia che per tanti secoli ha visto i manufatti al- pini come rispettati protagonisti dei territori di pertinenza, mentre oggi li consegna all’ab- bandono o sembra accettarne solo l’integrale trasformazione a destinazione abitativa per il tempo libero.

E’ attorno a questo binomio, “sapere antico” apparentemente dimenticato e “vastità delle odierne conoscenze”, apparentemente poco sfruttate che, sul piano delle tecniche di intervento, si gioca la partita della conservazione dell’architettura rurale alpina e del paesaggio di montagna più in generale.

Quindi, senza entrare nella questione della nuova architettura di montagna, sotto accu- sa per il dilagare dello stile rustico-ufficiale di maniera fatto di spente citazioni del passa- to, limitiamoci al patrimonio esistente e al significato ambientale e culturale che rappre- senta tenerlo in vita.

Certo è difficile spogliarci del senso di superiorità, reale o presunta, che proviamo nei ri- guardi delle esperienze di chi ci ha preceduto, ma quanto guadagneremmo se riuscissimo a coniugare le nostre vaste conoscenze di oggi con quell’antica, intuitiva sapienza che già un tempo abbiamo posseduto e che ci faceva praticare linguaggi spontaneamente rispettosi dell’ambiente circostante.

Se, citando Tolkien, “le radici profonde non gelano”, vediamo di ritrovare e alimentare queste radici.

 

 

 

Leggerezza – fragilità

 

 

Parliamo di quelle architetture rurali alpine che, in certe valli, prendono il nome di “ma- si”.

Costruzioni isolate, destinate a stalla e fienile e, in qualche caso e solo parzialmente, ad abitazione temporanea. Architetture spontanee, architetture senza architetti, ignorate dai critici e dagli storici, invece oggi oggetto di particolare attenzione proprio per la loro sa- pienza architettonica e per la naturale, insuperata contestualità con l’ambiente circos- tante.

Se prendiamo come esempio una valle ben nota per la presenza di masi come la trenti- na Val di Rabbi, una peculiarità colpisce l’osservatore di fronte alle tipiche costruzioni sparse che ancora occhieggiano dai pendii boscosi della valle: il senso di “leggerezza” che caratterizza queste architetture. Si potrebbe dire quasi di fragilità e che la mano trop- po lieve del costruttore abbia trascurato qualche criterio di sicurezza.

Ovviamente non è così, perché sono evidenti le condizioni estreme cui questi fabbricati abbiano dovuto resistere per centinaia di anni, dalle pendenze dei versanti alle grandi e- scursioni termiche, dal vento alla neve al gelo. Una grande avventura strutturale quella del maso, che non sapremmo spiegarci se non facendo riferimento a due precisi fattori: la pratica di una assidua manutenzione e la geniale applicazione del concetto di “struttura elastica” ovvero di deformabilità strutturale. 

Alla base di tutto troviamo un’economia povera, che ricerca ogni alternativa a soluzioni costose. Per esempio dovute all’impiego di materiali non reperiti in loco o di componenti specialistici come il ferro lavorato.

Quindi pietrame locale al piano terreno destinato a stalla, perché alla pietra è affidato il sostegno strutturale della costruzione e la protezione del bene più pregiato contenuto nel maso, il bestiame, oltre che la difesa dall’umidità del terreno per la struttura sovrastante.

Invece per il fienile, ove una buona aerazione è condizione necessaria per impedire la fermentazione del fieno e la sua autocombustione, il materiale ottimale è il legno, che consente la formazione di un involucro capiente ma sufficientemente leggero, la riduzio- ne al minimo ingombro delle strutture portanti interne, oltre che un naturale collegamen- to con l’impalcatura del coperto, anch'essa in legno.

Non ci sono finestre nel fienile, ma semplici fori di aerazione e queste asole, l’unico ele- mento su cui la fantasia del costruttore si permette qualche concessione, possono diven- tare un delicato motivo ornamentale, pur non rinunciando al loro precipuo carattere fun- zionale.

Sul legno entra in gioco la grande abilità artigianale di ognuno, perché tutti sono bravi taglialegna, bravi carpentieri, bravi falegnami, e questa abilità, questa operosità minima ma diffusa, è il vero patrimonio che ognuno può mettere a disposizione per se stesso e per reciproco soccorso, senza dover ricorrere a professionalità più rare e costose.

Le parti non più rispondenti vengono sostituite con facilità. Per il resto, sotto il controllo di una minuziosa manutenzione, si accetta che il manufatto si adatti alle diverse condizioni che si possono manifestare.

 

 

 

Adattabilità – Deformabilità – Elasticità

 

 

Il concetto di adattabilità si applica a partire dalla scelta del legno, non parlo dell’es- senza, che è sempre e solo larice per tutto quello che è a contatto con l’esterno, quanto delle caratteristiche di stabilità, governate, per il taglio, da precisi calendari stagionali e lunari.

Mi spiego con un esempio: diversamente dalla grondaia – un lungo semitronco scavato – che deve essere di legno “fermo” dopo il taglio per non subire torsioni e tracimare, per le scandole di copertura è preferito un legno che “lavori” anche dopo il taglio, cioè ca- pace di dilatarsi sotto l’azione della pioggia e di ritirarsi, presentando una lieve concavità verso l’alto, al ritorno del bel tempo e così consentire la ventilazione degli strati sottostan- ti.

Lo stesso concetto di modificabilità, di alterabilità, può essere esteso anche all’involucro esterno, alla “pelle” del maso, perché sul legno non veniva praticato alcun trattamento: era il tempo a incaricarsi di modificarlo tingendolo di quegli irripetibili bruni fiammati dal- le infinite sfumature e scavandolo di quei solchi che trasformano certi masi in grandiose sculture all’aperto, che qualcuno ha voluto paragonare alle architetture delle navi vichin- ghe o alle case su palafitte della Polinesia.

Ma la deformabilità esprime soprattutto una sofisticata concezione strutturale, che trova la sua massima applicazione nel maso a telaio e tavole di rivestimento.

Più l’edificio è in grado di assorbire le sollecitazioni modificandosi, più dura nel tempo, anche se costruito con elementi leggeri.

All’opposto, se imponiamo che la struttura non si muova, perché duri nel tempo dobbia- mo aumentare le sezioni reagenti, cioè gli spessori. In pratica la dobbiamo appesantire.

E’ per questo motivo, oltre che per risparmio di legname che si è passati dalla rigida, an- tichissima e dispendiosa tecnica a Blockbau di origine nordica, costituita da tronchi som- mariamente sgrossati e sovrapposti, con le basi e le cime alternate per mantenere l’oriz- zontalità e le estremità sagomate per realizzare incastri angolari, a quella del maso con struttura a telaio e tavole di rivestimento, resa possibile dalla diffusione delle segherie “ve- neziane” ad acqua, che consentivano l’impiego massiccio di tavole tagliate.

Non è altro che la tecnica del telaio portante e dei rivestimenti leggeri, oggi diffusissima in ogni tipo di costruzione.  Questa tecnica permette ben altre possibilità di articolazione del costruito ed elevazioni notevoli poiché, a parità di volume, richiede l’impiego di circa la metà di legname rispetto al Blockbau.

Il maso a telaio, con la sua immagine di dinamica leggerezza, le sue libertà compositive in pianta e in altezza, i suoi aggetti e i suoi luminosi poggioli, chiamati “solari”, con termi- ne particolarmente evocativo, è un’opera tecnicamente raffinata e di grande modernità concettuale, in cui linee guida del progetto, la trama strutturale e la definizione funziona- le sono espresse con assoluta chiarezza.

La tecnica è povera, ma il sistema è ricco di accorgimenti.

Si consente libertà di movimento al telaio mediante nodi strutturali resi elastici da cavi- glie di legno in luogo di incastri, alle saette di irrigidimento incastrate solo all’estremità su- periore, al sistema di tamponamento, realizzato con tavole fatte scorrere tra guide in legno e semplicemente accostate, senza sigillature o fissaggio rigido alla struttura, ai pog- gioli leggeri, che dovevano sostenere solo carichi modesti come quello di una o due per- sone e di quel poco di fieno che può essere esposto ad essiccare e per i quali le oscillazio- ni elastiche rientravano nella normalità di esercizio.

 A queste libertà contribuisce la ripartizione dei pesi, a partire dal coperto, costituito solo da un’orditura diradata e dal manto di scàndole, seppure in tripla sovrapposizione, per- ché destinato a riparare dalle intemperie e dai carichi di neve, ma non necessariamente dal freddo, in quanto è solo fieno che, ai piani superiori, deve essere protetto.

Quindi si aiutava la struttura con l’impiego di essenza di abete, più leggero, per le parti e le finiture interne e con i tipici alleggerimenti del coperto costituiti da un solo strato di ta- vole, più leggero e facilmente ancorabile alla struttura rispetto alle “scàndole in terza” - nelle zone degli sporti, che non riparano fieno ma che sono soggette alle azioni più ag- gressive del vento e della neve.

 E tutto l’insieme, come abbiamo detto, era tenuto in efficienza da una minuziosa opera di manutenzione, che ognuno era in grado di prestare praticamente a costo zero.

 

 

 

Il riuso e gli interventi edilizi

 

 

Non vogliamo qui prendere in esame gli interventi incongrui che, realizzati senza il mini- mo riguardo per l’esistente, costellano tutta la nostra montagna: sarebbe operazione po- co utile e frustrante che fa riferimento più alla coscienza che alla cultura di chi interviene.

Invece interessa maggiormente il caso degli interventi più impegnativi e curati su questi manufatti e il perché di esiti che, a mio parere, restano generalmente inaccettabili.

Oggi, rispetto a chi ci ha preceduto, procediamo con una logica completamente ribal- tata, che è quella di un’economia in cui, rispetto ai materiali e ai trasporti, è proprio la mano d’opera la voce di maggiore costo e, di conseguenza, quella della manutenzione. Terminati i lavori, almeno per un certo numero di anni non vogliamo rimettere mano alla costruzione. 

Le saette di irrigidimento e i nodi strutturali, i tamponamenti esterni in tavole ben sigillate e i grandi balconi saranno sovradimensionati rispetto al modello originale, per evitarci, nel tempo, fessurazioni nel legno, crepe sugli intonaci o fastidiose oscillazioni, seppure ela- stiche, nei balconi. Avremo reso rigida e pesante una struttura che nasce elastica e legge- ra.

Poi, il nostro maso ristrutturato come seconda casa, vogliamo godercelo sia d’estate che d’inverno. A differenza del fieno, noi vogliamo essere protetti dal caldo e dal freddo, non solo dalle infiltrazioni d’acqua, e non essere eccessivamente ventilati, se non a fine- stre aperte. Ciò vuol dire coibentazioni nelle coperture, fodere murarie e sigillature ai tam- ponamenti, grandi aperture per catturare più luce ma serramenti massicci per difenderci dal freddo. 

L’ingombrante pacchetto del nuovo coperto non avrà più nulla a che vedere con la sottile falda dal profilo incerto, alleggerita sugli sporti, tipica del maso alpino.

Ancora, restiamo ammirati dai vecchi legni solcati dal tempo e dal colore con le infinite sfumature, ma per il nostro maso preferiamo un buon “trattamento” che ci tolga il pro- blema di interventi successivi, anche se avremo imbalsamato un organismo vivo come il legno in un bozzolo sintetico, praticamente indeformabile e dal colore inalterabile nel tempo.

Insomma, vogliamo che il maso ristrutturato, cui tanti sacrifici abbiamo dedicato, appa- ia sempre come nuovo. 

Dei due fattori che costituiscono il fondamento della tradizione costruttiva alpina, cioè  la manutenzione costante e l’impiego di concezioni tecnologiche sofisticate, al primo non ci si può più realisticamente riferire oggi per motivi di ordine economico. E’ invece sul fronte delle tecnologie che potremmo bilanciare e recuperare ampiamente, lavorando sulle enormi risorse che ci possono essere rese disponibili.   

 

 

 

Che cosa richiedere alla tecnologia?

 

 

L’argomento è complesso e la sintesi penalizza la varietà delle problematiche. Quindi so- lo qualche esempio come spunto di riflessione.

Trattamenti del legno che siano protettivi dall’infiammabilità, dalle muffe e dai parassiti, ma che lo lascino libero di vivere e di modificarsi negli anni, libero di invecchiare. Perchè su queste costruzioni, che avremo ringiovanito con un’azione non priva di qualche violen- za, e restituito al paesaggio in una veste rinnovata, il ciclo vitale possa compiere ancora il suo corso. In altre parole, lasciamo che esse possano perdurare a interagire con l’am- biente circostante, anziché esserne respinte come corpi estranei. Vorrei dire: dopo averle riportate alla vita, lasciamo loro anche la libertà di invecchiare. 

Coibentazioni efficaci, che offrano le migliori prestazioni anche se applicate all’intrados- so della copertura, per conservare la leggerezza delle falde avendo ugualmente conse- guito il comfort e il contenimento dei consumi. Allo stesso modo coibentazioni dei para- menti verticali esterni in legno che consentano pacchetti di legno-coibente-legno, di spes- sore estremamente contenuto rispetto a quelli usuali con fodera interna in muratura. Coi- bentazioni efficaci anche sotto l’aspetto acustico, per consentire partizioni interne, oriz- zontali e verticali, in legno che possano contribuire all’alleggerimento dell’intera struttura e quindi delle travature del telaio.

 Sempre al fine di ridurre le sezioni reagenti strutturali, effettivo e completo sfruttamento dell’apporto fornito dagli elementi di irrigidimento e di controvento nel telaio in legno, anziché semplici citazioni ornamentali.

Tecniche di ricambio d’aria a basso consumo energetico per mantenere il più possibile inalterata la ridotta forometria originale, con la massima utilizzazione della scansione tra- dizionale ad asole verticali per la trasformazione di fienili in vani abitabili. 

Infine, e questo riguarda solo la normativa e non la tecnologia, per le altezze utili dei lo- cali dovrebbero essere ammesse deroghe, sia per rispettare le volumetrie preesistenti, ma anche per indirizzare al riuso, per quanto possibile, delle travature e del tavolame di recu- pero.

Solo pochi esempi. Ma è tutta la problematica della ricerca applicata a richiedere un salto di qualità e di impegno collettivo. Vanno promossi e incentivati studi presso i centri di ricerca, sperimentazioni presso le aziende di settore, formazione per le categorie inte- ressate.

E’ tempo di raggiungere risultati concreti e cogliere i frutti maturi della nostra modernità. Perché oggi non è ammesso assistere indifferenti alla morte di quel grande patrimonio che è l’architettura spontanea alpina e, dopo che ha vinto tante battaglie, lasciarla indi- fesa contro nuovi nemici che non era preparata a combattere, come gli appetiti della speculazione e, più insidiosi, gli ardimenti dell’ignoranza.

E, per riassumere in una frase, facciamo sì che l’azione benefica del tempo non debba interrompersi su questi interventi dei nostri giorni, ma che, assecondata dalla mano del- l’uomo, essa li possa compiutamente assimilare nel grande palinsesto del paesaggio, an- che negli aspetti più sgarbati che la nostra modernità, i nostri standard o quella che chia- miamo la nostra “qualità della vita”, portano con sé, inevitabilmente.

 

 
 


 

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