I BENI CULTURALI
PUBBLICI TRA STATO E REGIONE. TUTELA E SUSSIDIARIETA'
PER UN FEDERALI-SMO SOLIDALE.
Come è noto, la
lunga gestione integralmente centralistica dei beni
culturali statali (mo- nopolio che ha prodotto conflitti
estenuanti di competenze fra Stato e poteri locali) è
sta- ta cancellata dal Titolo V della Costituzione che –
secondo le modifiche legislative appor-tate nel 2001
(sancite dal referendum) – prevede una competenza
“concorrente” di Stato e Regioni in materia di
valorizzazione dei beni, mentre la tutela rimane
saldamente anco- rata nelle mani dello Stato agli
effetti della legge 1089/39 recepita nel Testo Unico
490/99.
Il decentramento
della gestione dei musei e della promozione e
valorizzazione del patri- monio dello Stato, comunque, è
già previsto nel D. Lgs. 112/98 ed è fortemente reclama-
to dalle Regioni. Tale decreto prevede, infatti, il
riordino dei ruoli della gestione del patri- monio
culturale e la ridistribuzione dei compiti – in una
sorta di compartecipazione – tra Stato, Regioni ed Enti
Locali, relativamente a quelle funzioni di
gestione/valorizzazione/ promozione che lo Stato non si
è esplicitamente riservato.
L’art. 150 dispone
l’istituzione di una commissione paritetica
Stato-Regioni con il compito di stabilire quali musei ed
altri beni statali debbano passare alla gestione –
rimanendone le proprietà allo Stato – degli enti
periferici. Purtroppo, è stato rilevato da molti
osservato- ri competenti che tale tentativo di
separazione dei compiti appare intricato e imperfetto, e
quindi difficilmente applicabile.
Pure il D.M. 27
novembre 2001(registrato alla Corte dei Conti il 4 marzo
2002) vale a rego- lamentare la facoltà di costituire
associazioni e fondazioni (o di parteciparvi) per la
valo- rizzazione dei beni culturali e ambientali, con
possibilità del loro conferimento in uso da parte del
competente Ministero, che riconferma comunque il suo
ruolo d’indirizzo e di ri- cerca scientifica, oltre che
le sue funzioni di controllo e tutela sui beni culturali
pubblici.
Nonostante tali
recenti atti legislativi, il problema dei rapporti
Stato-Regioni sul patrimo- nio dei beni culturali
continua a presentarsi come assai complesso, con le
diverse funzioni che si sovrappongono e si confondono,
pur con il punto fermo della riserva della tutela allo
Stato.
Tale nodo sembra
senza una via di uscita se si continua a pensare alla
concreta possibili- tà di una separazione di tipo
orizzontale dei poteri (indirizzo/controllo/tutela allo
Stato, valorizzazione/gestione alle Regioni): un vero e
proprio “pasticcio”, foriero di “effetti de-
stabilizzanti”, perché gestione significa – o dovrebbe
significare – anche tutela. Tale posi- zione sistemica è
chiaramente definita da un archeologo e storico
dell’arte di rilevante fama scientifica, Salvatore
Settis, con le parole «tutela e gestione sono due
momenti con- nessi ad un unico processo: la ricerca e la
conoscenza del bene da tutelare e da gestire».
Del resto, la
situazione di stallo in cui ci troviamo venne ben
descritta da Giulio Carlo Ar- gan nel 1983, con termini
che suonano ancora attuali.
Da una parte,
c’erano e ci sono i fautori dell’impostazione
centralista che presentano «la concentrazione delle
funzioni nelle mani dell’amministrazione statale come la
condizione necessaria per garantire, contro le pressioni
di interessi privati o le visioni particolaristiche o municipalistiche, un’azione ispirata a imparzialità,
obiettività e rigore: dimenticando tut- tavia che la
riserva agli organi di Stato di queste funzioni è la
situazione che fino ad oggi è esistita, e che questa
soluzione non ha affatto impedito, in tante occasioni,
la prevalen- za dell’interesse privato su quello
pubblico o l’abbandono di capitoli fondamentali del
nostro patrimonio culturale alla degradazione e
addirittura alla distruzione».
Dall’altra parte,
operano i sempre più numerosi sostenitori delle tesi
regionalistiche che «hanno dato quasi per scontato che
il decentramento delle funzioni e l’attribuzione di
maggiori poteri a Regioni ed Enti Locali potesse essere
di per sé sufficiente per garantire un’azione più
tempestiva e più efficace, una gestione più democratica,
un più stretto rapporto con i bisogni delle popolazioni:
trascurando il fatto, però, che molte Regioni ed Enti
Locali non hanno affatto dato prova di queste capacità e
che in realtà anche il con- seguimento degli obiettivi
sopra indicati richiede sia un’adeguata preparazione
tecnica sia una chiara volontà politica».
L’attuale rapporto
Stato-Regioni si presenta, dunque, come complesso e
confuso. Ma va anche detto che la situazione risulta,
oggi, ancora più aggrovigliata per il fatto che so-
printendenze e grandi musei sono oggetto di processi di
concessione di autonomia, e per il fatto che concessioni
particolari dei servizi relativi alla gestione dei beni
culturali soprat- tutto museografici e archeologici –
anche attività che, per coerenza, dovrebbero rimane- re
saldamente affidate all’amministrazione pubblica perché
legate alla conoscenza e al- la tutela – sono state date
a soggetti non statali (fondazioni e associazioni, enti
locali e u- niversità) e soprattutto a soggetti privati
per effetto prima della legge Ronchey del 1994 (librerie
e caffetterie, guidistica e assistenza didattica,
organizzazione di mostre, ecc.), e poi dell’art. 33
della Finanziaria 2002. Quest’ultimo atto – con la legge
cosiddetta «salva-deficit» n. 212/2002 che istituisce la
«Patrimonio di Stato Spa», di cui si parlerà più avanti
– si sta rivelando di particolare gravità, essendo
entrambi i provvedimenti dettati dall’eco- nomicismo
esasperato e di corto respiro che sembra guidare
l’attuale governo nazionale.
Con tali atti –
indipendentemente dalle strategie che li supportano –,
si rompe con la politica tradizionale e si abbraccia una
visione nuova di tipo aziendale e mercantile. Tut- to
lascia credere che lo Stato si accinge a divorare esso
stesso i suoi figli, i beni culturali, appunto, che
costituiscono storicamente un insieme finora
rigorosamente inalienabile, il cui collante può essere
correttamente definito «tradizione e identità nazionale».
Con tali atti si
finirà, dunque, per infliggere un colpo mortale al
patrimonio dei beni cul- turali, dividendo i singoli
beni dall’area socio-culturale e dall’ambiente
fisico-naturale che lo sedimentano, da quel museo
diffuso che esprime molteplici iniziative (e quindi
attività e professioni) intorno alle innumerevoli
opere d’arte e ai valori storici materiali e immate-
riali emergenti nel territorio. Infatti, ogni emergenza
storica e artistica ha un punto di riferi- mento nelle
altre componenti spazialmente contigue o vicine:
elementi tutti di una map-pa preziosa che è, appunto, il
museo diffuso, che si coordina con i musei tradizionali
e gli altri beni culturali. Ed è tutto questo patrimonio
inscindibile, come sistema unico integrato al
territorio, che attrae i visitatori e crea valori
identitari nei cittadini. Questo patrimonio inscindibile
non può essere trattato per parti separate (a seconda
dei vali livelli istituzionali che ne hanno la
proprietà), e non può essere smembrato con vendite (o
svendite) e affitti di rapina a soggetti privati,
separando la tutela e l’attività di ricerca e di
diffusione della conoscenza dagli interventi della
valorizzazione che devono essere sempre subordinati alla
tutela.
In una fase
politica così complessa come l’attuale, l’attribuzione
delle competenze di valorizzazione e gestione alle
Regioni “in concorrenza” (espressione giuridica dalla
valen- za politico-culturale senz’altro negativa!) con
lo Stato – e più ancora la richiesta di “auto- nomia
speciale” come quella avanzata dalla Toscana – in
materia di beni culturali, quali quelle previste dal
Titolo V, suscitano opposizioni o quanto meno
perplessità in molti intel- lettuali e anche all’interno
delle associazioni ambientaliste (Italia Nostra
compresa), e ad- dirittura vengono viste come attentati
«all’unitarietà dell’identità nazionale, come la dis-
gregazione di un sistema così perfetto da non poter
essere modificato in nessuna parte».
Tale posizione
concettuale è sottolineata criticamente dall’assessore
alla Cultura della Regione Toscana Mariella Zoppi,
nell’occasione del convegno “L’economia della cultura”
tenutosi a Firenze il 22-23 novembre 2002.
D’altra parte,
occorre convenire che l’azione regionalistica appare
come tesa a restrin- gere l’ambito concettuale della
tutela (cioè la funzione statale esclusiva) a vantaggio
dell’allargamento del concetto di valorizzazione,
trascurando il fatto che la tutela ha un senso solo se
vige in modo uniforme su tutto il territorio nazionale,
così come la valorizza-zione trascende la visione
prettamente locale, dovendosi raccordare ad orientamenti
ge- nerali ed omogenei indicati dagli organismi
centrali.
Poiché la
valorizzazione è indissolubilmente legata alla tutela, e
poiché una valorizzazio- ne non corretta mette
inevitabilmente a rischio l’esistenza stessa o la salute
di un bene culturale, ne consegue che solo in un quadro
integrato d’insieme – vale a dire di leale e solidale
collaborazione attiva fra i vari soggetti istituzionali
– le politiche di gestione im- prontate dallo spirito di
sussidiarietà possono e devono essere organizzate alle
scale terri- toriali regionali e locali, a seconda delle
esigenze dei beni medesimi e delle particolarità
socio-culturali ed economiche dei singoli territori. E
in questa cornice – ma solo in questa cornice di
rapporti armonicamente integrati –, dovrebbe essere a
tutti chiaro che i gover- ni locali sono da considerare
«come strutture dello Stato e non come sudditi
obbedienti e incapaci», e che
«è impossibile tutelare e
valorizzare la risorsa beni culturali (soprattutto
quelli architettonici ed archeologici) fuori da una
organica gestione urbanistica del territo- rio, delegata
da decenni ai governi locali»(scrive Riccardo Francovich in una lettera a “La Repubblica” del 13
febbraio 1998).
Di sicuro, le
diffidenze e opposizioni al trasferimento dei poteri sui
beni culturali dallo Sta- to alle Regioni sono
alimentate dal timore, assolutamente non infondato, che
possa ripe- tersi quanto è accaduto proprio con le
subdeleghe ai Comuni nelle materie urbanistiche e
paesistiche.
Infatti, scrive
condivisibilmente Vittorio Emiliani, che laddove «le
Regioni hanno delegato ai Comuni competenze urbanistiche
e paesistiche, rinunciando ad essere l’elemento di
valutazione critica superiore», innumerevoli scempi –
non contrastati, se non in via ecce- zionale, dalla
stessa Regione interessata, oppure dalla competente
Soprintendenza stata- le che è stata, di fatto,
gradualmente privata dei poteri di controllo e di
surroga – «han- no travolto tutto il sistema della
tutela, c’è una rottura culturale senza precedenti, non
so- lo vengono annullati 20 anni di lotte per il paesaggio
e per il patrimonio [culturale], ma si verifica una
rottura rispetto alle stesse leggi Bottai del ‘39».
Con riferimento a
tali preoccupate posizioni antilocalistiche, il già
citato assessore tosca- no Zoppi continua: «mi sento, lo
confesso, a disagio di fronte a posizioni così forti;
certo vedo molti pericoli ed incertezze in un
cambiamento radicale del modello italiano, ma penso che
esso stesso possa essere rafforzato da un rapporto
‘leale’ (come dice la legge) fra lo Stato ed i ‘suoi’
enti locali […]. La Toscana, inoltre, non solo per il
suo passato fatto di ‘esportazione’ culturale
(Umanesimo, Rinascimento e Manierismo), ma anche per la
sua attuale attività basata contemporaneamente sulla
conoscenza (Carta dei Vincoli e Ca- talogo, in accordo
con la Soprintendenza regionale), sulla qualificazione
delle strutture e del personale (adeguamento dei musei
agli standard
ministeriali), sulla ricerca di sistemi di rete per
l’ottimizzazione dei servizi (esistente per le
biblioteche, comprensivo anche di quelle universitarie
ed in corso per il sistema museale) e su consistenti
investimenti sul patri- monio pubblico e privato, non
sembra essere antagonista del Sistema-Italia, ma pensa
di poter avere una funzione ‘utile’ nei confronti dello
Stato, e soprattutto nei confronti dei cittadini
residenti e dei visitatori cui appartiene per intero il
nostro patrimonio culturale».
Da qui l’invito ad
abbassare «il quoziente di conflittualità» e a ricreare,
«con maggior collaborazione, un chiarimento di ruoli e
di competenze»: il tutto per
«aprire un dialogo per
iniziare a definire linee di azione comuni, per esporre
posizioni nell’intento di trovare possibilità di
confronto e di intesa nell’interesse del nostro
patrimonio storico-artistico e dell’intera comunità».
Sgombrando il
terreno da ogni contrapposizione pregiudiziale di ordine
politico-ideologi- ca, e limitandosi al dibattito
scientifico, c’è da dire che questa chiara e
condivisibile a- pertura verso un’intesa equilibrata tra
centro e periferia trova sostanzialmente contrario un
intellettuale dello spessore di Salvatore Settis, autore
del fortunato volumetto
Italia
S.p.A.,
edito da Einaudi nel 2002.
In sostanza, egli
sostiene che – grazie alla legge 1089/39, per cui il
patrimonio culturale statale «è proprietà dei cittadini
e va promosso dallo Stato mediante ricerca, conoscen- za,
tutela: che esso va inteso non come una rete di musei,
ma come un insieme inscindi- bile di beni culturali, che
siano in un museo o fuori, in campagna o in città» –, in
Italia, «si è elaborata una cultura della conservazione
attenta e sofisticata, che ha valorizzato mo- numenti
grandi e piccoli come parte di un insieme, di una rete
culturale che ci ha gene- rato e che ci identifica;
nonché la consapevolezza che il patrimonio culturale
doveva es- sere protetto dallo Stato. Questa
conservazione
identitaria dell’arte
è la principale ricchezza culturale dell’Italia ed ha
una rilevanza economica».
Dato questo
principio storicamente “positivo”, nonostante la
consapevolezza delle cro- niche disfunzioni statali e
del «deteriorarsi della pubblica amministrazione dei
Beni Cultura- li»(che sembra voler rinunciare ad
esercitare il suo ruolo cruciale di tutela), Settis
ritiene che sia «illusoria»
ogni reiterata volontà di distinguere fra tutela
(compito dello Stato) e gestione (da affidarsi ai
privati), perché «separare
tutela
da gestione
vuol dire di fatto mettere da una parte le perdite (le
spese di tutela), e dall’altra i potenziali profitti (la
ge- stione), dove lo Stato si farebbe interamente carico
delle perdite, e ogni possibile profitto verrebbe
assegnato ai privati. Proprio in una logica d’impresa
questa sarebbe, per lo Sta- to, una scelta
autolesionistica; molto più logico sarebbe generare
profitti dove è possibi- le, e poi spenderli a coprire
le perdite».
Invece, con
l’ingresso dei privati, «le conseguenze saranno
devastanti. Il privato interver- rà con la legittima
aspettativa di un profitto, ma come potrà ottenerlo?
Ovviamente ta- gliando i costi per incrementare i
ricavi». E tagliare i costi
«vuol dire limitare la
ricerca, in- crementare mostre inutili, concedere
prestiti facilmente, con grave rischio delle opere più
delicate».
Vale la pena di
sottolineare che questo lucido argomentare di Settis
riguarda esclusiva- mente il dilemma gestione statale,
cioè pubblica, oppure gestione privata dei beni cul-
turali. Settis è evidentemente contrario ad una
articolazione dei poteri fra Stato e Regioni, e le sue
chiare e motivate argomentazioni spezzano una lancia
robusta – probabilmente con eccesso di ottimismo – a
favore di una generale riorganizzazione, all’insegna
dell’effi- cienza, della «macchina pubblica» statale, al
fine di far funzionare bene il sistema dei be- ni
culturali, «come un’impresa», con ciò abbandonando
finalmente ogni velleitaria e peri-colosa idea di
privatizzazione del sistema medesimo perché alla lunga
questo processo fi- nirebbe col comportare «la svendita
di un patrimonio che appartiene a tutti gli italiani».
Italia Nostra crede
che il problema qui enunciato deve essere oggi
impostato, realistica- mente, in modo diverso da quanto
finora dato per acquisito e intangibile, circa cioè la
vexata quaestio
del sistema della tutela e
gestione statale.
Oggi, nella fase
che stiamo vivendo, che registra la costruzione di un
regionalismo avan- zato o di un federalismo solidale, è
evidente che la partecipazione alla gestione dell’im-
menso patrimonio dei beni culturali statali reclamata
dalle Regioni (da intendere come gestione regionale
diretta o con il coinvolgimento di province e di comuni
singoli o asso- ciati, senza escludere le associazioni e
i privati), secondo il principio della
sussidiarietà e
al di fuori dell’inaccettabile devoluzione (perché
intesa come
dissoluzione
dello Stato), non
può essere ignorata o respinta per posizione
aprioristica e pregiudiziale. Tale istanza va in- vece
discussa in un quadro di riferimento di ordine generale,
per appurare l’esistenza delle condizioni atte a
realizzare una leale collaborazione fra Stato e Regioni,
finalizzata ad u- na organica e feconda integrazione fra
tutti i musei e gli altri beni archeologici e monu-
mentali territoriali (non solo gli statali, ma anche
quelli comunali, universitari, religiosi,ecc.) presenti
nella realtà spaziale di ciascuna regione.
Spetta ad un altro
noto intellettuale di grande passione e impegno civile,
l’archeologo Riccardo Francovich (Tutela
e sussidiarietà,
“Una Città”, XI, ottobre 2002, pp. 18-19), soste- nere
con solide motivazioni tale nuovo orientamento, partendo
dalle esperienze positive ottenute nei vari parchi
della Val di Cornia (specialmente quelli
archeo-minerario di Roc- ca San Silvestro e archeologico
di Baratti-Populonia, l’ultimo di proprietà statale),
tutti at- tualmente gestiti da una Spa costituita in
grande maggioranza con capitali pubblici (Pro- vincia di Livorno e Comuni della valle).
In effetti, questi
parchi stanno a rappresentare un apprezzato modello di
ricerca scientifi- ca/tutela/riqualificazione ambientale
e insieme di promozione (essendo interessati da una
larga fruizione turistica), e stanno a dimostrare quindi
che più soggetti pubblici (Regione/ Provincia/Comuni da
una parte, Università dall’altra, con lo Stato nel caso
del vecchio parco archeologico di Baratti-Populonia, e
va sottolineato che è la prima volta che un'a- rea
demaniale di rilevante pregio culturale è concessa in
affitto alla gestione di una Spa) possono
responsabilmente ben collaborare per la creazione e
gestione di sistemi di parchi culturali dotati degli
indispensabili musei e centri di documentazione e
formazione didatti- ca: con l’obiettivo «non tanto di
fare utile su un patrimonio a carattere storico e
naturali- stico» insieme («tentativo impossibile»), quanto
piuttosto «di andare verso un razionale u- so degli
investimenti, che metta di fronte alle proprie
responsabilità amministratori, ricer- catori e tecnici
del settore, che spesso, esaltando il ruolo di utilità
sociale del proprio lavo- ro, ignorano generalmente il
contesto di compatibilità economica in cui si muovono».
Partendo proprio
dall’esperienza della Val di Cornia – e dalla dimensione
locale di nomi- na del consiglio d’amministrazione della
Spa, che detiene tutto il potere decisionale, ma che si
è rivelata inadeguata perché “troppo sensibile ai
piccoli assetti del potere del par- tito egemone della
zona” –, Francovich ritiene che, per la gestione dei
beni culturali, “l’i- stituzione di una società
no-profit
sarebbe la via migliore. In questo contesto si sarebbe
potuta sviluppare più facilmente una filiera formativa
(da quella professionale a quella universitaria) in
rapporto con l’Università e il mondo della ricerca, che
avrebbe assai me- glio garantito rinnovamento e
comunicazione delle strutture del parco”.
Francovich crede
fermamente che «il complesso problema della
conservazione dell’ere- dità culturale del paese sia
governabile soltanto attraverso l’impegno sinergico di
tutte le pubbliche amministrazioni, cioè dello Stato,
delle Regioni, delle Province, dei Comuni e delle
Università, in forma collaborativa con i più disparati
soggetti privati (dalle istituzioni
no-profit
alle imprese)». E ciò, perché l’esperienza degli ultimi
decenni dimostra che la struttura statale accentrata –
«una burocrazia tanto qualificata per preparazione
storico- artistica selettiva, quanto generalmente
disattenta ai contesti e a rispondere alla natura- le
esigenza di una tutela diffusa» – non è in grado di
«coprire tutto l’immenso patrimonio disseminato nel
Paese» sul quale ha competenze di vero e proprio
monopolio. «La conse- guenza di questa scelta [di
monopolio] è stata quella di lasciare privi di strumenti
di valu- tazione e d’intervento chi gestisce davvero
l’immenso patrimonio del costruito storico e i paesaggi
storici del Paese», col limitare od ostacolare (caso
unico in Europa) «la ricerca universitaria nel settore
dei beni culturali e la crescita delle capacità
gestionali dei gover- ni locali».
Per questi motivi e
sottolineando particolarmente l’esigenza di superare le
«costanti pre- varicazioni su fondamentali diritti di
libertà della ricerca», Francovich ribadisce che
«non è
possibile ancor oggi affermare il necessario e
imprescindibile principio del controllo da parte degli
organi di tutela dello Stato sul patrimonio, e
affidargli contestualmente la va- lorizzazione e la
gestione senza finire in un conflitto di competenze e in
un regime mono- polistico che impedisce la crescita
qualitativa e quantitativa della conservazione di un
patrimonio che si va sempre più precisando e
allargando». Riguardo all’inadeguatezza e talora alla
vera e propria impotenza del monopolio statale, viene
sottolineata l’inesisten- za della «disponibilità
ministeriale all’accesso alle banche dati e alle
informazioni compu- terizzate relative ai sistemi
georeferenziati di distribuzione e catalogazione del
patrimonio storico, artistico e archeologico, nonostante
gli ingentissimi investimenti operati fino dai tempi dei
grandi progetti sui
giacimenti culturali”.
Occorre, dunque,
voltare pagina, per garantire davvero «la pubblica
fruizione del patri-
monio culturale,
attraverso un’incisiva condivisione di responsabilità
dei soggetti istituzio- nali interessati […],
utilizzando strumenti flessibili e il principio di
sussidiarietà (strumento della ‘Legge Bassanini’ che
permette d’operare tenendo conto delle competenze reali
dei diversi soggetti pubblici e privati)».
Il nuovo cammino da
percorrere in tale direzione ‘positiva’ vede lo Stato
mantenere, o meglio riassumere attivamente, l’esercizio
delle «funzioni essenziali di controllo (ben sepa- rate
dalla valorizzazione e dalla gestione) e d’indirizzo, in
sinergia con gli altri soggetti pubblici» ed
eventualmente con l’associazionismo e con le imprese e i
privati che voglio- no investire perché «attratti
dall’impatto promozionale sulla loro immagine. Un nuovo
cammino dove la prospettiva di coniugare conservazione e
sviluppo, crescita della quali- tà della formazione,
della comunicazione e dell’occupazione, attraverso
dinamiche nuo- ve di imprese culturali, potranno non
rimanere semplici
slogan».
Purché si mantenga
fermo «il principio di pubblicità dell’azione di
tutela», non essendo possibile immaginare un sistema di
gestione prevalentemente privato come quello gros-
solanamente previsto dalla “Patrimonio Spa” : «l’esito di
una selezione su base economici- stica sarebbe esiziale».
Ma se un soggetto
privato «non si assumerà mai la gestione di un bene le
cui previsioni sono in perdita», invece i governi locali
– che riescono a valutare i costi e i benefici a livel-
lo comprensoriale, e sono in grado di mettere sul piatto
della bilancia le ricadute com- plessive in termini di
economia di distretto e di qualità della formazione e
della comuni- cazione – sono senz’altro adatti «a
governare il patrimonio culturale, creando le condizio- ni
per costruire gli strumenti innovativi di tutela,
valorizzazione e gestione, riservandosi lo Stato la
necessaria funzione di controllo»: una funzione che
andrà rafforzata con la rior- ganizzazione «degli organi
periferici dello Stato».
In conclusione,
Francovich assegna a questo nuovo cammino da costruire
con sapiente progettualità e coinvolgimento condiviso di
tutti i livelli istituzionali pubblici (senza esclu-
dere l’apporto disinteressato dei privati e
dell’associazionismo), l’obiettivo strategico di porre «il patrimonio culturale al centro di politiche capaci
di innescare comunque proces- si di crescita in termini
culturali, formativi, comunicativi, e perché no, anche
economici».
Tale prospettiva è
pienamente condivisa da Italia Nostra.
E in tale
prospettiva sembra muoversi la Toscana, per quanto
concerne la gestione del patrimonio culturale non
statale. L’esempio della politica regionale nel settore
museogra- fico – con i suoi 453 musei, dei quali solo 77
statali (questi ultimi attraggono comunque la
grandissima maggioranza dei visitatori, rispetto alle
altre conservatorie comunali, eccle- siastiche e
private, essendo il rapporto approssimativamente di 4:1)
– è largamente ap- prezzato, anche per la buona armonia
esistente tra «enti territoriali ed amministrazione
statale»(così
l’assessore regionale alla Cultura Mariella Zoppi).
Deve essere chiaro
che, come recentemente sostenuto dal Presidente della
Repubblica (Ciampi:
autonomia sì, ma nell’unità,
“La Repubblica” del 14 dicembre 2002, p. 8), il raffor-
zamento delle autonomie regionali e la creazione di
«sistema di federalismo solidale» non possono avvenire a
scapito «dell’unità, del prestigio e della dignità dello
Stato», bensì
de- vono avvenire mediante «un dialogo più
intenso tra i pubblici poteri» per
«favorire la col- laborazione istituzionale», coll’obiettivo di
«accrescere l’efficienza delle istituzioni»
a tutto «vantaggio dei cittadini»,
oltre che del patrimonio dei beni comuni.
LA “PATRIMONIO
DELLO STATO Spa” E I SUOI PREVEDIBILI EFFETTI NEGATIVI
La legge 112/2002 o
“Legge Tremonti” è una normativa prettamente economica
che, in modo apparentemente bizzarro, istituisce
(rispettivamente agli articoli 7 e 8) due società per
azioni: la “Patrimonio dello Stato Spa” e la
“Infrastrutture Spa”.
La “Patrimonio Spa”
ha la funzione di «valorizzare, gestire e alienare il
patrimonio dello Stato», con la dotazione di un capitale
azionario detenuto dal Ministero dell’Economia e dei
diritti (pieni o parziali) sui beni immobili e mobili
disponibili e indisponibili dello Stato, come edifici
adibiti a uffici pubblici, caserme, miniere, spiagge,
boschi, aree archeologi- che e monumenti o comunque beni storico-artistici, ecc., ma anche diritti d’autore e
bre- vetti, concessioni statali e partecipazioni in
società o consorzi, crediti vari.
Tra i beni toscani
compresi in un nutrito elenco pubblicato nella “Gazzetta
Ufficiale” del 6 agosto 2002 (ben 275 lotti), basti
ricordare terreni e fabbricati ubicati in varie isole
dell’Ar- cipelago Toscano comprese nel parco nazionale
(a Capraia, Gorgona, Pianosa e Monte- cristo) e in tante
città e centri minori. Molti beni sembrano essere – come
affermato dal Soprintendente Regionale Mario Lolli
Ghetti a “La Repubblica” del 14 dicembre 2002 – «co- se di
nessun interesse» (specialmente costruzioni abbastanza
recenti), ma non mancano edifici urbani monumentali o
comunque di importanza storica: ad esempio, a Firenze,
ol- tre all’archivio di stato costruito nel 1989 su
progetto di Italo Gamberini (fabbricato non storico ma
rappresentante una delle principali conservatorie della
memoria del Paese), le caserme Cavalli e Morandi,
l’istituto di sanità militare, il complesso insediativo
militare del Bobolino e quello del lungarno della Zecca,
la scuola di guerra aerea, la residenza della Celere di
Poggio Imperiale, la dogana di via Valfonda; ad Arezzo,
il settecentesco palaz- zo Albergotti (con le sedi del
catasto, della guardia di finanza e della polizia
stradale, la caserma Italia e il carcere), ecc.
Le parti politiche
e sociali, e soprattutto le associazioni ambientaliste,
hanno il merito di avere attirato l’attenzione dei media
e del pubblico su tale colossale operazione annun- ciata
di finanza pubblica (cfr. ad esempio “Italia Nostra”,
bollettino n. 385 del luglio 2002, e “La Nuova
Ecologia”, XXII, 10, novembre 2002), sicuramente la più
grande della storia dell’Italia unita: un’operazione che
è stata a lungo circondata da un alone di mistero, per
non dire di omertà, che ha reso complicato cogliere con
chiarezza tutte le implicazio- ni di una vicenda che
rivoluziona il concetto fin qui consolidato e condiviso
di bene pub- blico.
Tra l’altro, il
processo di trasferimento dell’ingente patrimonio di
pertinenza del demanio statale richiederebbe dei costi
che il modesto capitale sociale della società da poco
co- stituita non sembra potersi permettere. La procedura
da seguire dovrebbe essere quella di soddisfare gli
obblighi verso lo Stato venditore mediante l’emissione
di titoli garantiti dal- lo stesso patrimonio acquisito
e coprire i conseguenti oneri finanziari mediante «la
messa a reddito»
di una parte del patrimonio medesimo.
Ciò si tradurrebbe anche nella stipula di contratti di
cessione del diritto d’uso e di superficie a privati
(col risultato che, per poter fruire un bene pubblico
oggi libero, quale ad esempio una spiaggia o un
monumento, bi- sognerà pagare un canone per l’accesso) o
di contratti
leasing o di affitto con lo stesso Stato,
che continuerebbe ad utilizzare una parte dei beni – ad
esempio certi immobili per caserme e carceri, archivi e
biblioteche o musei, scuole o università e uffici
finanziari, ecc. – del patrimonio ceduto, a prezzo della
corresponsione di un canone alla “Patrimonio Spa”.
E’ certo comunque
che, al fine di raggiungere gli obiettivi prefissati
dalla legge – che so- no soprattutto quelli di ridurre
in modo incisivo il
deficit
del bilancio
statale –, la “Patrimo- nio Spa” dovrà ricorrere
massicciamente al mercato, mediante operazioni di
‘cartolariz- zazione’: emettendo cioè titoli collegati
ai beni trasferiti. Come si vede, siamo in presenza di
un meccanismo bizzarro e di un circolo vizioso che
nasconde un irresponsabile e inac- cettabile calcolo
economico (il fare cassa subito, a spese del consumo di
un patrimonio comune e di valori culturali sui quali si
basano la nostra storia e la nostra identità presen- te,
senza pensare minimamente al futuro), o nella migliore
delle ipotesi un trucco contabi- ile degno della
cosiddetta ‘finanza creativa’ del ministro Tremonti, per
occultare una par- te del debito pubblico grazie
all’inscrizione nell’attivo di bilancio di ‘partite di giro’, e
gra- zie al trasferimento di poste passive a
società controllate ma esterne alla contabilità sta- tale.
L’altra funzione
che il governo attribuisce alla “Patrimonio Spa” è
quella di finanziare la “Infrastrutture Spa”, con la
pretesa di sostenere, in tal modo, contemporaneamente la
crescita economica del Paese.
Come è noto, la
“Infrastrutture Spa” è una società pubblico-privato,
inizialmente parteci- pata solo dal Ministero
dell’Economia e istituita dalla Cassa Depositi e
Prestiti che – con il beneplacito del ministro – può
cedere al mercato proprie azioni fino al 50 per cento.
In altre parole, la “Infrastrutture Spa” può avere una
maggioranza azionaria privata e finan- ziare, in via
sussidiaria rispetto agli intermediari finanziari, sia
la costruzione delle grandi in- frastrutture e opere
pubbliche – con realizzazione di progetti ambientalmente
rovinosi co- me il faraonico Ponte dello Stretto e
l’ambiziosa Autostrada Tirrenica nell’entroterra ma- remmano – e sia investimenti di altro genere ‘pensati’
per la crescita economica.
Come si enunciava,
la “Infrastrutture Spa” è strettamente collegata con la
“Patrimonio Spa”, in quanto il capitale azionario di
quest’ultima può essere trasferito a titolo gratuito
alla prima, e inoltre perché gli stessi beni storico-artistici e finanziari facenti parte della
“Patrimonio Spa” possono essere ceduti a titolo oneroso
alla società per le infrastrutture. Considerando che
quest’ultima – se vorrà adempiere alle sue funzioni di
finanziamento e garanzia – dovrà necessariamente
indebitarsi tramite l’emissione di titoli, si comprende
con assoluta chiarezza il pericolo che corre il
patrimonio ambientale e culturale dello Sta- to, perché
in tal modo tali beni entrerebbero a far parte del
patrimonio di una società a maggioranza privata, e
rimarrebbero esposti ad eventuali procedure fallimentari
nel caso di insolvenza della società medesima.
La maggioranza che
governa il Paese ha cercato e cerca di minimizzare le
diffuse preoc- cupazioni circa la disastrosa dispersione
o liquidazione del patrimonio ambientale e cul- turale
pubblico adducendo, a garanzia, il richiamo al
regolamento 283/2000 che fu ema- nato in attuazione
dell’art. 32 della Finanziaria 1999: tale regolamento,
disciplinando le alienazioni degli immobili di interesse
storico-artistico di proprietà statale, regionale, pro- vinciale e comunale, le esclude completamente per alcune
categorie di beni e le am- mette per altre, ma solo in
via di eccezione e a condizione di una più efficiente
tutela. Ed è diffusa l’opinione che proprio a questo
regolamento si sia riferito il Presidente del Con-
siglio quando, in risposta al ben noto intervento di
censura del Presidente della Repubbli- ca (con
avanzamento di richiesta di correzioni a tutela del
patrimonio culturale italiano), ha voluto assicurare che
l’integrità del patrimonio storico-artistico è
adeguatamente ga- rantita da norme obiettive che
vincolano la pubblica amministrazione, ragion per cui –
a suo dire – non è necessario alcun nuovo intervento
legislativo. In realtà, sussistono fondati motivi per
ritenere tale regolamento inapplicabile per la legge
212/2002 perché redatto per la legge 410/2001 sulla
cartolarizzazione dei beni degli enti previdenziali
pubblici, e quindi c’è da credere che oggi sia del tutto
inefficace.
Quello che è certo
è che la legge 212 è già operativa, anche perché la
“Patrimonio” è stata dotata del suo amministratore
delegato.
Si starebbe,
quindi, prefigurando un’enorme truffa ai danni del
patrimonio comune e dei cittadini, tanto più che – come
ha scritto Vittorio Sgarbi che, anche per la sua decisa
op- posizione al provvedimento, è stato rimosso dalla
carica di sottosegretario ai Beni Cultu- rali – «un
sistema di privatizzazione così generico», e inquietante
perché non ancorato a regole certe, quale quello
previsto, «espone i nostri tesori al rischio di una
vendita indistin- ta», per di più a prezzi di saldo e
senza garanzie sulla pubblicità delle aste di privatizzazio- ne o delle procedure di affidamento, a
tutto vantaggio di affaristi e speculatori che sono già
in lista di attesa. Informazioni giornalistiche –
pubblicate ad esempio nella pagina e- conomica di “La
Repubblica” del 3 dicembre 2002 – hanno individuato un
pool di ban- che internazionali che avrebbe effettuato
un prestito allo Stato di ben 5 miliardi di euro,
ovviamente in cambio di concrete garanzie sulla cartolarizzazione in atto.
Si può, pertanto,
facilmente immaginare questi ed altri privati pronti a
rifarsi – come al monte dei pegni – sui beni dati in
garanzia, se non avranno avuto il ritorno economico
previsto dalle operazioni di vendita e di concessione.
Ed è stato pure
accertato con chiarezza che, una volta sottratti al
patrimonio pubblico e venduti a privati, i beni
culturali perderanno automaticamente i vincoli di tutela
previsti dal vigente Testo Unico 490/99 (art. 5).
Le preoccupazioni
rimangono dunque forti, anche perché, di fatto, il
Ministero dell’Eco- nomia si è sostituito pressoché
completamente – qualcuno ha scritto «senza scrupoli» –
ai due Ministeri dei Beni e delle Attività Culturali (la
firma del quale sarebbe obbligatoria so- lo in caso di
cessione di beni di particolare pregio storico-artistico)
e dell’Ambiente (del quale non è invece prevista
autorizzazione alcuna per la vendita dei beni paesistico-am- bientali), nelle loro competenze
istituzionali, col decretare quali beni potranno essere
tras- feriti dallo Stato alla “Patrimonio Spa”.
In proposito, non è
da sottovalutare l’avvertimento contenuto nella recente
relazione della Corte dei Conti – che è stata
pubblicizzata solo dalle associazioni ambientaliste – in
merito alla pericolosa esposizione «ai rischi del
mercato» del patrimonio ambientale e culturale italiano
e alla gestione privatistica delle due Spa, documento
della giustizia con- tabile che vale la pena qui riportare
nel passo saliente:
«la trasferibilità
di azioni della
Patrimonio Spa
alla
Infrastrutture Spa,
che può a sua volta costituire società figlie anche con
privati, fa sì che il patrimonio immobiliare e mobiliare
dello Stato possa essere influenzato dall’andamento di
società nelle quali non vi è parte- cipazione pubblica
totalitaria e che, pur collegate alla
Infrastrutture Spa,
operano espo- ste ai rischi di mercato [...]. Le
considerazioni sopra esposte inducono la Corte ad espri- mere un giudizio negativo sia sui legami azionari,
sia sui conferimenti di beni che collega- no la
Patrimonio Spa
con la
Infrastrutture
Spa e
con le altre società in mano pubblica».
Ma anche
limitatamente alla gestione del patrimonio destinato a
rimanere di proprietà statale, la Patrimonio Spa fa
pensare ad un
éscamotage
– come sostiene Riccardo Franco- vich – per conservare
«allo Stato l’onere della tutela lasciando i profitti
alle gestioni pri- vate»: che poi
«è la situazione che
caratterizza in molti casi la condizione attuale della
tu- tela e della gestione. Basti pensare alla rendita di
posizione degli esercizi commerciali e ri- cettivi intorno
alle grandi strutture museali e ai grandi centri storici
ricchi di offerta cultura- le».
Intanto,
un’accorata denuncia degli effetti che tale dissennata
operazione può avere anche indirettamente sul futuro del
patrimonio culturale del Paese viene dalla Biblioteca
Nazionale Centrale di Firenze che – vedendosi
improvvisamente rifiutato lo spazio vitale della caserma
di via Tripoli (da decenni in qualche modo promessa a
questa grande con- servatoria, ma ora inserita
nell’elenco dei beni alienabili a privati) – non è più
in grado di garantire il naturale sviluppo del suo
patrimonio librario, a meno di reperire sul mercato, con
tutte le difficoltà correlate specialmente ai costi
altissimi e alla non prossimità degli immobili, spazi
nuovi da adibire a ampi depositi che necessitano con
drammatica urgen- za. Da qui, l’aprirsi di una vicenda
paradossale, per cui gli edifici demaniali di via
Tripoli in via di dismissione (del tutto adatti allo
sviluppo della Biblioteca anche per la loro conti- guità)
potranno essere privatizzati, a costi presumibilmente
esigui, dal Ministero dell’Eco- nomia, mentre il
Ministero dei Beni e delle Attività Culturali sarà
costretto a un ingente sforzo finanziario per
acquistare, o assumere a titolo di affitto da terzi,
secondo gli alti va- lori di mercato, i locali necessari
alla vita della stessa Biblioteca, con sicuro
aggravamen- to dell’impegno finanziario dello Stato e
con scadimento della qualità del funzionamen- to della
conservatoria nazionale, stante la lontananza certa
degli spazi che si rendono in- dispensabili.
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