LEONARDO ROMBAI

 

LA PRESERVAZIONE DEL PATRIMONIO PUBBLICO DEI BENI CULTURALI

IL DELICATO RAPPORTO STATO-REGIONE E i PERICOLI DELLA PRIVATIZZAZIONE

 

 

 

 

 

I BENI CULTURALI PUBBLICI TRA STATO E REGIONE. TUTELA E SUSSIDIARIETA' PER UN FEDERALI-SMO SOLIDALE.

 

Come è noto, la lunga gestione integralmente centralistica dei beni culturali statali (mo- nopolio che ha prodotto conflitti estenuanti di competenze fra Stato e poteri locali) è sta- ta cancellata dal Titolo V della Costituzione che – secondo le modifiche legislative appor-tate nel 2001 (sancite dal referendum) – prevede una competenza “concorrente” di Stato e Regioni in materia di valorizzazione dei beni, mentre la tutela rimane saldamente anco- rata nelle mani dello Stato agli effetti della legge 1089/39 recepita nel Testo Unico 490/99.

Il decentramento della gestione dei musei e della promozione e valorizzazione del patri- monio dello Stato, comunque, è già previsto nel D. Lgs. 112/98 ed è fortemente reclama- to dalle Regioni. Tale decreto prevede, infatti, il riordino dei ruoli della gestione del patri- monio culturale e la ridistribuzione dei compiti – in una sorta di compartecipazione – tra Stato, Regioni ed Enti Locali, relativamente a quelle funzioni di gestione/valorizzazione/ promozione che lo Stato non si è esplicitamente riservato.

L’art. 150 dispone l’istituzione di una commissione paritetica Stato-Regioni con il compito di stabilire quali musei ed altri beni statali debbano passare alla gestione – rimanendone le proprietà allo Stato – degli enti periferici. Purtroppo, è stato rilevato da molti osservato- ri competenti che tale tentativo di separazione dei compiti appare intricato e imperfetto, e quindi difficilmente applicabile.

Pure il D.M. 27 novembre 2001(registrato alla Corte dei Conti il 4 marzo 2002) vale a rego- lamentare la facoltà di costituire associazioni e fondazioni (o di parteciparvi) per la valo- rizzazione dei beni culturali e ambientali, con possibilità del loro conferimento in uso da parte del competente Ministero, che riconferma comunque il suo ruolo d’indirizzo e di ri- cerca scientifica, oltre che le sue funzioni di controllo e tutela sui beni culturali pubblici.

 

Nonostante tali recenti atti legislativi, il problema dei rapporti Stato-Regioni sul patrimo- nio dei beni culturali continua a presentarsi come assai complesso, con le diverse funzioni che si sovrappongono e si confondono, pur con il punto fermo della riserva della tutela allo Stato.

Tale nodo sembra senza una via di uscita se si continua a pensare alla concreta possibili- tà di una separazione di tipo orizzontale dei poteri (indirizzo/controllo/tutela allo Stato, valorizzazione/gestione alle Regioni): un vero e proprio “pasticcio”, foriero di “effetti de- stabilizzanti”, perché gestione significa – o dovrebbe significare – anche tutela. Tale posi- zione sistemica è chiaramente definita da un archeologo e storico dell’arte di rilevante fama scientifica, Salvatore Settis, con le parole «tutela e gestione sono due momenti con- nessi ad un unico processo: la ricerca e la conoscenza del bene da tutelare e da gestire».

Del resto, la situazione di stallo in cui ci troviamo venne ben descritta da Giulio Carlo Ar- gan nel 1983, con termini che suonano ancora attuali.

Da una parte, c’erano e ci sono i fautori dell’impostazione centralista che presentano «la concentrazione delle funzioni nelle mani dell’amministrazione statale come la condizione necessaria per garantire, contro le pressioni di interessi privati o le visioni particolaristiche o municipalistiche, un’azione ispirata a imparzialità, obiettività e rigore: dimenticando tut- tavia che la riserva agli organi di Stato di queste funzioni è la situazione che fino ad oggi è esistita, e che questa soluzione non ha affatto impedito, in tante occasioni, la prevalen- za dell’interesse privato su quello pubblico o l’abbandono di capitoli fondamentali del nostro patrimonio culturale alla degradazione e addirittura alla distruzione».

Dall’altra parte, operano i sempre più numerosi sostenitori delle tesi regionalistiche che «hanno dato quasi per scontato che il decentramento delle funzioni e l’attribuzione di maggiori poteri a Regioni ed Enti Locali potesse essere di per sé sufficiente per garantire un’azione più tempestiva e più efficace, una gestione più democratica, un più stretto rapporto con i bisogni delle popolazioni: trascurando il fatto, però, che molte Regioni ed Enti Locali non hanno affatto dato prova di queste capacità e che in realtà anche il con- seguimento degli obiettivi sopra indicati richiede sia un’adeguata preparazione tecnica sia una chiara volontà politica».

 

L’attuale rapporto Stato-Regioni si presenta, dunque, come complesso e confuso. Ma va anche detto che la situazione risulta, oggi, ancora più aggrovigliata per il fatto che so- printendenze e grandi musei sono oggetto di processi di concessione di autonomia, e per il fatto che concessioni particolari dei servizi relativi alla gestione dei beni culturali soprat- tutto museografici e archeologici – anche attività che, per coerenza, dovrebbero rimane- re saldamente affidate all’amministrazione pubblica perché legate alla conoscenza e al- la tutela – sono state date a soggetti non statali (fondazioni e associazioni, enti locali e u- niversità) e soprattutto a soggetti privati per effetto prima della legge Ronchey del 1994 (librerie e caffetterie, guidistica e assistenza didattica, organizzazione di mostre, ecc.), e poi dell’art. 33 della Finanziaria 2002. Quest’ultimo atto – con la legge cosiddetta «salva-deficit» n. 212/2002 che istituisce la «Patrimonio di Stato Spa», di cui si parlerà più avanti – si sta rivelando di particolare gravità, essendo entrambi i provvedimenti dettati dall’eco- nomicismo esasperato e di corto respiro che sembra guidare l’attuale governo nazionale.

Con tali atti – indipendentemente dalle strategie che li supportano –, si rompe con la politica tradizionale e si abbraccia una visione nuova di tipo aziendale e mercantile. Tut- to lascia credere che lo Stato si accinge a divorare esso stesso i suoi figli, i beni culturali, appunto, che costituiscono storicamente un insieme finora rigorosamente inalienabile, il cui collante può essere correttamente definito «tradizione e identità nazionale».

Con tali atti si finirà, dunque, per infliggere un colpo mortale al patrimonio dei beni cul- turali, dividendo i singoli beni dall’area socio-culturale e dall’ambiente fisico-naturale che lo sedimentano, da quel museo diffuso che esprime molteplici iniziative (e quindi attività e professioni) intorno alle innumerevoli opere d’arte e ai valori storici materiali e immate- riali emergenti nel territorio. Infatti, ogni emergenza storica e artistica ha un punto di riferi- mento nelle altre componenti spazialmente contigue o vicine: elementi tutti di una map-pa preziosa che è, appunto, il museo diffuso, che si coordina con i musei tradizionali e gli altri beni culturali. Ed è tutto questo patrimonio inscindibile, come sistema unico integrato al territorio, che attrae i visitatori e crea valori identitari nei cittadini. Questo patrimonio inscindibile non può essere trattato per parti separate (a seconda dei vali livelli istituzionali che ne hanno la proprietà), e non può essere smembrato con vendite (o svendite) e affitti di rapina a soggetti privati, separando la tutela e l’attività di ricerca e di diffusione della conoscenza dagli interventi della valorizzazione che devono essere sempre subordinati alla tutela.

 

In una fase politica così complessa come l’attuale, l’attribuzione delle competenze di valorizzazione e gestione alle Regioni “in concorrenza” (espressione giuridica dalla valen- za politico-culturale senz’altro negativa!) con lo Stato – e più ancora la richiesta di “auto- nomia speciale” come quella avanzata dalla Toscana – in materia di beni culturali, quali quelle previste dal Titolo V, suscitano opposizioni o quanto meno perplessità in molti intel- lettuali e anche all’interno delle associazioni ambientaliste (Italia Nostra compresa), e ad- dirittura vengono viste come attentati «all’unitarietà dell’identità nazionale, come la dis- gregazione di un sistema così perfetto da non poter essere modificato in nessuna parte».

Tale posizione concettuale è sottolineata criticamente dall’assessore alla Cultura della Regione Toscana Mariella Zoppi, nell’occasione del convegno “L’economia della cultura” tenutosi a Firenze il 22-23 novembre 2002.

D’altra parte, occorre convenire che l’azione regionalistica appare come tesa a restrin- gere l’ambito concettuale della tutela (cioè la funzione statale esclusiva) a vantaggio dell’allargamento del concetto di valorizzazione, trascurando il fatto che la tutela ha un senso solo se vige in modo uniforme su tutto il territorio nazionale, così come la valorizza-zione trascende la visione prettamente locale, dovendosi raccordare ad orientamenti ge- nerali ed omogenei indicati dagli organismi centrali.

Poiché la valorizzazione è indissolubilmente legata alla tutela, e poiché una valorizzazio- ne non corretta mette inevitabilmente a rischio l’esistenza stessa o la salute di un bene culturale, ne consegue che solo in un quadro integrato d’insieme – vale a dire di leale e solidale collaborazione attiva fra i vari soggetti istituzionali – le politiche di gestione im- prontate dallo spirito di sussidiarietà possono e devono essere organizzate alle scale terri- toriali regionali e locali, a seconda delle esigenze dei beni medesimi e delle particolarità socio-culturali ed economiche dei singoli territori. E in questa cornice – ma solo in questa cornice di rapporti armonicamente integrati –, dovrebbe essere a tutti chiaro che i gover- ni locali sono da considerare «come strutture dello Stato e non come sudditi obbedienti e incapaci», e che «è impossibile tutelare e valorizzare la risorsa beni culturali (soprattutto quelli architettonici ed archeologici) fuori da una organica gestione urbanistica del territo- rio, delegata da decenni ai governi locali»(scrive Riccardo Francovich in una lettera a “La Repubblica” del 13 febbraio 1998).

 

Di sicuro, le diffidenze e opposizioni al trasferimento dei poteri sui beni culturali dallo Sta- to alle Regioni sono alimentate dal timore, assolutamente non infondato, che possa ripe- tersi quanto è accaduto proprio con le subdeleghe ai Comuni nelle materie urbanistiche e paesistiche.

Infatti, scrive condivisibilmente Vittorio Emiliani, che laddove «le Regioni hanno delegato ai Comuni competenze urbanistiche e paesistiche, rinunciando ad essere l’elemento di valutazione critica superiore», innumerevoli scempi – non contrastati, se non in via ecce- zionale, dalla stessa Regione interessata, oppure dalla competente Soprintendenza stata- le che è stata, di fatto, gradualmente privata dei poteri di controllo e di surroga – «han- no travolto tutto il sistema della tutela, c’è una rottura culturale senza precedenti, non so- lo vengono annullati 20 anni di lotte per il paesaggio e per il patrimonio [culturale], ma si verifica una rottura rispetto alle stesse leggi Bottai del ‘39».

Con riferimento a tali preoccupate posizioni antilocalistiche, il già citato assessore tosca- no Zoppi continua: «mi sento, lo confesso, a disagio di fronte a posizioni così forti; certo vedo molti pericoli ed incertezze in un cambiamento radicale del modello italiano, ma penso che esso stesso possa essere rafforzato da un rapporto ‘leale’ (come dice la legge) fra lo Stato ed i ‘suoi’ enti locali […]. La Toscana, inoltre, non solo per il suo passato fatto di ‘esportazione’ culturale (Umanesimo, Rinascimento e Manierismo), ma anche per la sua attuale attività basata contemporaneamente sulla conoscenza (Carta dei Vincoli e Ca- talogo, in accordo con la Soprintendenza regionale), sulla qualificazione delle strutture e del personale (adeguamento dei musei agli standard ministeriali), sulla ricerca di sistemi di rete per l’ottimizzazione dei servizi (esistente per le biblioteche, comprensivo anche di quelle universitarie ed in corso per il sistema museale) e su consistenti investimenti sul patri- monio pubblico e privato, non sembra essere antagonista del Sistema-Italia, ma pensa di poter avere una funzione ‘utile’ nei confronti dello Stato, e soprattutto nei confronti dei cittadini residenti e dei visitatori cui appartiene per intero il nostro patrimonio culturale».

Da qui l’invito ad abbassare «il quoziente di conflittualità» e a ricreare, «con maggior collaborazione, un chiarimento di ruoli e di competenze»: il tutto per «aprire un dialogo per iniziare a definire linee di azione comuni, per esporre posizioni nell’intento di trovare possibilità di confronto e di intesa nell’interesse del nostro patrimonio storico-artistico e dell’intera comunità».

 

Sgombrando il terreno da ogni contrapposizione pregiudiziale di ordine politico-ideologi- ca, e limitandosi al dibattito scientifico, c’è da dire che questa chiara e condivisibile a- pertura verso un’intesa equilibrata tra centro e periferia trova sostanzialmente contrario un intellettuale dello spessore di Salvatore Settis, autore del fortunato volumetto Italia S.p.A., edito da Einaudi nel 2002.

In sostanza, egli sostiene che – grazie alla legge 1089/39, per cui il patrimonio culturale statale «è proprietà dei cittadini e va promosso dallo Stato mediante ricerca, conoscen- za, tutela: che esso va inteso non come una rete di musei, ma come un insieme inscindi- bile di beni culturali, che siano in un museo o fuori, in campagna o in città» –, in Italia, «si è elaborata una cultura della conservazione attenta e sofisticata, che ha valorizzato mo- numenti grandi e piccoli come parte di un insieme, di una rete culturale che ci ha gene- rato e che ci identifica; nonché la consapevolezza che il patrimonio culturale doveva es- sere protetto dallo Stato. Questa conservazione identitaria dell’arte è la principale ricchezza culturale dell’Italia ed ha una rilevanza economica».

Dato questo principio storicamente “positivo”, nonostante la consapevolezza delle cro- niche disfunzioni statali e del «deteriorarsi della pubblica amministrazione dei Beni Cultura- li»(che sembra voler rinunciare ad esercitare il suo ruolo cruciale di tutela), Settis ritiene che sia «illusoria» ogni reiterata volontà di distinguere fra tutela (compito dello Stato) e gestione (da affidarsi ai privati), perché «separare tutela da gestione vuol dire di fatto mettere da una parte le perdite (le spese di tutela), e dall’altra i potenziali profitti (la ge- stione), dove lo Stato si farebbe interamente carico delle perdite, e ogni possibile profitto verrebbe assegnato ai privati. Proprio in una logica d’impresa questa sarebbe, per lo Sta- to, una scelta autolesionistica; molto più logico sarebbe generare profitti dove è possibi- le, e poi spenderli a coprire le perdite».

Invece, con l’ingresso dei privati, «le conseguenze saranno devastanti. Il privato interver- rà con la legittima aspettativa di un profitto, ma come potrà ottenerlo? Ovviamente ta- gliando i costi per incrementare i ricavi». E tagliare i costi «vuol dire limitare la ricerca, in- crementare mostre inutili, concedere prestiti facilmente, con grave rischio delle opere più delicate».

Vale la pena di sottolineare che questo lucido argomentare di Settis riguarda esclusiva- mente il dilemma gestione statale, cioè pubblica, oppure gestione privata dei beni cul- turali. Settis è evidentemente contrario ad una articolazione dei poteri fra Stato e Regioni, e le sue chiare e motivate argomentazioni spezzano una lancia robusta – probabilmente con eccesso di ottimismo – a favore di una generale riorganizzazione, all’insegna dell’effi- cienza, della «macchina pubblica» statale, al fine di far funzionare bene il sistema dei be- ni culturali, «come un’impresa», con ciò abbandonando finalmente ogni velleitaria e peri-colosa idea di privatizzazione del sistema medesimo perché alla lunga questo processo fi- nirebbe col comportare «la svendita di un patrimonio che appartiene a tutti gli italiani».

 

Italia Nostra crede che il problema qui enunciato deve essere oggi impostato, realistica- mente, in modo diverso da quanto finora dato per acquisito e intangibile, circa cioè la  vexata quaestio del sistema della tutela e gestione statale.

Oggi, nella fase che stiamo vivendo, che registra la costruzione di un regionalismo avan- zato o di un federalismo solidale, è evidente che la partecipazione alla gestione dell’im- menso patrimonio dei beni culturali statali reclamata dalle Regioni (da intendere come gestione regionale diretta o con il coinvolgimento di province e di comuni singoli o asso- ciati, senza escludere le associazioni e i privati), secondo il principio della sussidiarietà e al di fuori dell’inaccettabile devoluzione (perché intesa come dissoluzione dello Stato), non può essere ignorata o respinta per posizione aprioristica e pregiudiziale. Tale istanza va in- vece discussa in un quadro di riferimento di ordine generale, per appurare l’esistenza delle condizioni atte a realizzare una leale collaborazione fra Stato e Regioni, finalizzata ad u- na organica e feconda integrazione fra tutti i musei e gli altri beni archeologici e monu- mentali territoriali (non solo gli statali, ma anche quelli comunali, universitari, religiosi,ecc.) presenti nella realtà spaziale di ciascuna regione.

Spetta ad un altro noto intellettuale di grande passione e impegno civile, l’archeologo Riccardo Francovich (Tutela e sussidiarietà, “Una Città”, XI, ottobre 2002, pp. 18-19), soste- nere con solide motivazioni tale nuovo orientamento, partendo dalle esperienze positive ottenute nei vari parchi della Val di Cornia (specialmente quelli archeo-minerario di Roc- ca San Silvestro e archeologico di Baratti-Populonia, l’ultimo di proprietà statale), tutti at- tualmente gestiti da una Spa costituita in grande maggioranza con capitali pubblici (Pro- vincia di Livorno e Comuni della valle).

In effetti, questi parchi stanno a rappresentare un apprezzato modello di ricerca scientifi- ca/tutela/riqualificazione ambientale e insieme di promozione (essendo interessati da una larga fruizione turistica), e stanno a dimostrare quindi che più soggetti pubblici (Regione/ Provincia/Comuni da una parte, Università dall’altra, con lo Stato nel caso del vecchio parco archeologico di Baratti-Populonia, e va sottolineato che è la prima volta che un'a- rea demaniale di rilevante pregio culturale è concessa in affitto alla gestione di una Spa) possono responsabilmente ben collaborare per la creazione e gestione di sistemi di parchi culturali dotati degli indispensabili musei e centri di documentazione e formazione didatti- ca: con l’obiettivo «non tanto di fare utile su un patrimonio a carattere storico e naturali- stico» insieme («tentativo impossibile»), quanto piuttosto «di andare verso un razionale u- so degli investimenti, che metta di fronte alle proprie responsabilità amministratori, ricer- catori e tecnici del settore, che spesso, esaltando il ruolo di utilità sociale del proprio lavo- ro, ignorano generalmente il contesto di compatibilità economica in cui si muovono».

Partendo proprio dall’esperienza della Val di Cornia – e dalla dimensione locale di nomi- na del consiglio d’amministrazione della Spa, che detiene tutto il potere decisionale, ma che si è rivelata inadeguata perché “troppo sensibile ai piccoli assetti del potere del par- tito egemone della zona” –, Francovich ritiene che, per la gestione dei beni culturali, “l’i- stituzione di una società no-profit sarebbe la via migliore. In questo contesto si sarebbe potuta sviluppare più facilmente una filiera formativa (da quella professionale a quella universitaria) in rapporto con l’Università e il mondo della ricerca, che avrebbe assai me- glio garantito rinnovamento e comunicazione delle strutture del parco”.

Francovich crede fermamente che «il complesso problema della conservazione dell’ere- dità culturale del paese sia governabile soltanto attraverso l’impegno sinergico di tutte le pubbliche amministrazioni, cioè dello Stato, delle Regioni, delle Province, dei Comuni e delle Università, in forma collaborativa con i più disparati soggetti privati (dalle istituzioni no-profit alle imprese)». E ciò, perché l’esperienza degli ultimi decenni dimostra che la struttura statale accentrata – «una burocrazia tanto qualificata per preparazione storico- artistica selettiva, quanto generalmente disattenta ai contesti e a rispondere alla natura- le esigenza di una tutela diffusa» – non è in grado di «coprire tutto l’immenso patrimonio disseminato nel Paese» sul quale ha competenze di vero e proprio monopolio. «La conse- guenza di questa scelta [di monopolio] è stata quella di lasciare privi di strumenti di valu- tazione e d’intervento chi gestisce davvero l’immenso patrimonio del costruito storico e i paesaggi storici del Paese», col limitare od ostacolare (caso unico in Europa) «la ricerca universitaria nel settore dei beni culturali e la crescita delle capacità gestionali dei gover- ni locali».

Per questi motivi e sottolineando particolarmente l’esigenza di superare le «costanti pre- varicazioni su fondamentali diritti di libertà della ricerca», Francovich ribadisce che «non è possibile ancor oggi affermare il necessario e imprescindibile principio del controllo da parte degli organi di tutela dello Stato sul patrimonio, e affidargli contestualmente la va- lorizzazione e la gestione senza finire in un conflitto di competenze e in un regime mono- polistico che impedisce la crescita qualitativa e quantitativa della conservazione di un patrimonio che si va sempre più precisando e allargando». Riguardo all’inadeguatezza e talora alla vera e propria impotenza del monopolio statale, viene sottolineata l’inesisten- za della «disponibilità ministeriale all’accesso alle banche dati e alle informazioni compu- terizzate relative ai sistemi georeferenziati di distribuzione e catalogazione del patrimonio storico, artistico e archeologico, nonostante gli ingentissimi investimenti operati fino dai tempi dei grandi progetti sui giacimenti culturali”.

Occorre, dunque, voltare pagina, per garantire davvero «la pubblica fruizione del patri- monio culturale, attraverso un’incisiva condivisione di responsabilità dei soggetti istituzio- nali interessati […], utilizzando strumenti flessibili e il principio di sussidiarietà (strumento della ‘Legge Bassanini’ che permette d’operare tenendo conto delle competenze reali dei diversi soggetti pubblici e privati)».

Il nuovo cammino da percorrere in tale direzione ‘positiva’ vede lo Stato mantenere, o meglio riassumere attivamente, l’esercizio delle «funzioni essenziali di controllo (ben sepa- rate dalla valorizzazione e dalla gestione) e d’indirizzo, in sinergia con gli altri soggetti pubblici» ed eventualmente con l’associazionismo e con le imprese e i privati che voglio- no investire perché «attratti dall’impatto promozionale sulla loro immagine. Un nuovo cammino dove la prospettiva di coniugare conservazione e sviluppo, crescita della quali- tà della formazione, della comunicazione e dell’occupazione, attraverso dinamiche nuo- ve di imprese culturali, potranno non rimanere semplici slogan».

Purché si mantenga fermo «il principio di pubblicità dell’azione di tutela», non essendo possibile immaginare un sistema di gestione prevalentemente privato come quello gros- solanamente previsto dalla “Patrimonio Spa” : «l’esito di una selezione su base economici- stica sarebbe esiziale».

Ma se un soggetto privato «non si assumerà mai la gestione di un bene le cui previsioni sono in perdita», invece i governi locali – che riescono a valutare i costi e i benefici a livel- lo comprensoriale, e sono in grado di mettere sul piatto della bilancia le ricadute com- plessive in termini di economia di distretto e di qualità della formazione e della comuni- cazione – sono senz’altro adatti «a governare il patrimonio culturale, creando le condizio- ni per costruire gli strumenti innovativi di tutela, valorizzazione e gestione, riservandosi lo Stato la necessaria funzione di controllo»: una funzione che andrà rafforzata con la rior- ganizzazione «degli organi periferici dello Stato».

In conclusione, Francovich assegna a questo nuovo cammino da costruire con sapiente progettualità e coinvolgimento condiviso di tutti i livelli istituzionali pubblici (senza esclu- dere l’apporto disinteressato dei privati e dell’associazionismo), l’obiettivo strategico di porre «il patrimonio culturale al centro di politiche capaci di innescare comunque proces- si di crescita in termini culturali, formativi, comunicativi, e perché no, anche economici».

Tale prospettiva è pienamente condivisa da Italia Nostra.

E in tale prospettiva sembra muoversi la Toscana, per quanto concerne la gestione del patrimonio culturale non statale. L’esempio della politica regionale nel settore museogra- fico – con i suoi 453 musei, dei quali solo 77 statali (questi ultimi attraggono comunque la grandissima maggioranza dei visitatori, rispetto alle altre conservatorie comunali, eccle- siastiche e private, essendo il rapporto approssimativamente di 4:1) – è largamente ap- prezzato, anche per la buona armonia esistente tra «enti territoriali ed amministrazione statale»(così l’assessore regionale alla Cultura Mariella Zoppi).

Deve essere chiaro che, come recentemente sostenuto dal Presidente della Repubblica (Ciampi: autonomia sì, ma nell’unità, “La Repubblica” del 14 dicembre 2002, p. 8), il raffor- zamento delle autonomie regionali e la creazione di «sistema di federalismo solidale» non possono avvenire a scapito «dell’unità, del prestigio e della dignità dello Stato», bensì de- vono avvenire mediante «un dialogo più intenso tra i pubblici poteri» per «favorire la col- laborazione istituzionale», coll’obiettivo di «accrescere l’efficienza delle istituzioni» a tutto «vantaggio dei cittadini», oltre che del patrimonio dei beni comuni.

   

 

LA “PATRIMONIO DELLO STATO Spa” E I SUOI PREVEDIBILI EFFETTI NEGATIVI

 

La legge 112/2002 o “Legge Tremonti” è una normativa prettamente economica che, in modo apparentemente bizzarro, istituisce (rispettivamente agli articoli 7 e 8) due società per azioni: la “Patrimonio dello Stato Spa” e la “Infrastrutture Spa”.

La “Patrimonio Spa” ha la funzione di «valorizzare, gestire e alienare il patrimonio dello Stato», con la dotazione di un capitale azionario detenuto dal Ministero dell’Economia e dei diritti (pieni o parziali) sui beni immobili e mobili disponibili e indisponibili dello Stato, come edifici adibiti a uffici pubblici, caserme, miniere, spiagge, boschi, aree archeologi- che e monumenti o comunque beni storico-artistici, ecc., ma anche diritti d’autore e bre- vetti, concessioni statali e partecipazioni in società o consorzi, crediti vari.

Tra i beni toscani compresi in un nutrito elenco pubblicato nella “Gazzetta Ufficiale” del 6 agosto 2002 (ben 275 lotti), basti ricordare terreni e fabbricati ubicati in varie isole dell’Ar- cipelago Toscano comprese nel parco nazionale (a Capraia, Gorgona, Pianosa e Monte- cristo) e in tante città e centri minori. Molti beni sembrano essere – come affermato dal Soprintendente Regionale Mario Lolli Ghetti a “La Repubblica” del 14 dicembre 2002 – «co- se di nessun interesse» (specialmente costruzioni abbastanza recenti), ma non mancano edifici urbani monumentali o comunque di importanza storica: ad esempio, a Firenze, ol- tre all’archivio di stato costruito nel 1989 su progetto di Italo Gamberini (fabbricato non storico ma rappresentante una delle principali conservatorie della memoria del Paese), le caserme Cavalli e Morandi, l’istituto di sanità militare, il complesso insediativo militare del Bobolino e quello del lungarno della Zecca, la scuola di guerra aerea, la residenza della Celere di Poggio Imperiale, la dogana di via Valfonda; ad Arezzo, il settecentesco palaz- zo Albergotti (con le sedi del catasto, della guardia di finanza e della polizia stradale, la caserma Italia e il carcere), ecc.

Le parti politiche e sociali, e soprattutto le associazioni ambientaliste, hanno il merito di avere attirato l’attenzione dei media e del pubblico su tale colossale operazione annun- ciata di finanza pubblica (cfr. ad esempio “Italia Nostra”, bollettino n. 385 del luglio 2002, e “La Nuova Ecologia”, XXII, 10, novembre 2002), sicuramente la più grande della storia dell’Italia unita: un’operazione che è stata a lungo circondata da un alone di mistero, per non dire di omertà, che ha reso complicato cogliere con chiarezza tutte le implicazio- ni di una vicenda che rivoluziona il concetto fin qui consolidato e condiviso di bene pub- blico.

Tra l’altro, il processo di trasferimento dell’ingente patrimonio di pertinenza del demanio statale richiederebbe dei costi che il modesto capitale sociale della società da poco co- stituita non sembra potersi permettere. La procedura da seguire dovrebbe essere quella di soddisfare gli obblighi verso lo Stato venditore mediante l’emissione di titoli garantiti dal- lo stesso patrimonio acquisito e coprire i conseguenti oneri finanziari mediante «la messa a reddito» di una parte del patrimonio medesimo. Ciò si tradurrebbe anche nella stipula di contratti di cessione del diritto d’uso e di superficie a privati (col risultato che, per poter fruire un bene pubblico oggi libero, quale ad esempio una spiaggia o un monumento, bi- sognerà pagare un canone per l’accesso) o di contratti leasing o di affitto con lo stesso Stato, che continuerebbe ad utilizzare una parte dei beni – ad esempio certi immobili per caserme e carceri, archivi e biblioteche o musei, scuole o università e uffici finanziari, ecc. – del patrimonio ceduto, a prezzo della corresponsione di un canone alla “Patrimonio Spa”.

E’ certo comunque che, al fine di raggiungere gli obiettivi prefissati dalla legge – che so- no soprattutto quelli di ridurre in modo incisivo il deficit del bilancio statale –, la “Patrimo- nio Spa” dovrà ricorrere massicciamente al mercato, mediante operazioni di ‘cartolariz- zazione’: emettendo cioè titoli collegati ai beni trasferiti. Come si vede, siamo in presenza di un meccanismo bizzarro e di un circolo vizioso che nasconde un irresponsabile e inac- cettabile calcolo economico (il fare cassa subito, a spese del consumo di un patrimonio comune e di valori culturali sui quali si basano la nostra storia e la nostra identità presen- te, senza pensare minimamente al futuro), o nella migliore delle ipotesi un trucco contabi- ile degno della cosiddetta ‘finanza creativa’ del ministro Tremonti, per occultare una par- te del debito pubblico grazie all’inscrizione nell’attivo di bilancio di ‘partite di giro’, e gra- zie al trasferimento di poste passive a società controllate ma esterne alla contabilità sta- tale.

L’altra funzione che il governo attribuisce alla “Patrimonio Spa” è quella di finanziare la “Infrastrutture Spa”, con la pretesa di sostenere, in tal modo, contemporaneamente la crescita economica del Paese.

Come è noto, la “Infrastrutture Spa” è una società pubblico-privato, inizialmente parteci- pata solo dal Ministero dell’Economia e istituita dalla Cassa Depositi e Prestiti che – con il beneplacito del ministro – può cedere al mercato proprie azioni fino al 50 per cento. In altre parole, la “Infrastrutture Spa” può avere una maggioranza azionaria privata e finan- ziare, in via sussidiaria rispetto agli intermediari finanziari, sia la costruzione delle grandi in- frastrutture e opere pubbliche – con realizzazione di progetti ambientalmente rovinosi co- me il faraonico Ponte dello Stretto e l’ambiziosa Autostrada Tirrenica nell’entroterra ma- remmano – e sia investimenti di altro genere ‘pensati’ per la crescita economica.

Come si enunciava, la “Infrastrutture Spa” è strettamente collegata con la “Patrimonio Spa”, in quanto il capitale azionario di quest’ultima può essere trasferito a titolo gratuito alla prima, e inoltre perché gli stessi beni storico-artistici e finanziari facenti parte della “Patrimonio Spa” possono essere ceduti a titolo oneroso alla società per le infrastrutture. Considerando che quest’ultima – se vorrà adempiere alle sue funzioni di finanziamento e garanzia – dovrà necessariamente indebitarsi tramite l’emissione di titoli, si comprende con assoluta chiarezza il pericolo che corre il patrimonio ambientale e culturale dello Sta- to, perché in tal modo tali beni entrerebbero a far parte del patrimonio di una società a maggioranza privata, e rimarrebbero esposti ad eventuali procedure fallimentari nel caso di insolvenza della società medesima.

La maggioranza che governa il Paese ha cercato e cerca di minimizzare le diffuse preoc- cupazioni circa la disastrosa dispersione o liquidazione del patrimonio ambientale e cul- turale pubblico adducendo, a garanzia, il richiamo al regolamento 283/2000 che fu ema- nato in attuazione dell’art. 32 della Finanziaria 1999: tale regolamento, disciplinando le alienazioni degli immobili di interesse storico-artistico di proprietà statale, regionale, pro- vinciale e comunale, le esclude completamente per alcune categorie di beni e le am- mette per altre, ma solo in via di eccezione e a condizione di una più efficiente tutela. Ed è diffusa l’opinione che proprio a questo regolamento si sia riferito il Presidente del Con- siglio quando, in risposta al ben noto intervento di censura del Presidente della Repubbli- ca (con avanzamento di richiesta di correzioni a tutela del patrimonio culturale italiano), ha voluto assicurare che l’integrità del patrimonio storico-artistico è adeguatamente ga- rantita da norme obiettive che vincolano la pubblica amministrazione, ragion per cui – a suo dire – non è necessario alcun nuovo intervento legislativo. In realtà, sussistono fondati motivi per ritenere tale regolamento inapplicabile per la legge 212/2002 perché redatto per la legge 410/2001 sulla cartolarizzazione dei beni degli enti previdenziali pubblici, e quindi c’è da credere che oggi sia del tutto inefficace.

Quello che è certo è che la legge 212 è già operativa, anche perché la “Patrimonio” è stata dotata del suo amministratore delegato.

Si starebbe, quindi, prefigurando un’enorme truffa ai danni del patrimonio comune e dei cittadini, tanto più che – come ha scritto Vittorio Sgarbi che, anche per la sua decisa op- posizione al provvedimento, è stato rimosso dalla carica di sottosegretario ai Beni Cultu- rali – «un sistema di privatizzazione così generico», e inquietante perché non ancorato a regole certe, quale quello previsto, «espone i nostri tesori al rischio di una vendita indistin- ta», per di più a prezzi di saldo e senza garanzie sulla pubblicità delle aste di privatizzazio- ne o delle procedure di affidamento, a tutto vantaggio di affaristi e speculatori che sono già in lista di attesa. Informazioni giornalistiche – pubblicate ad esempio nella pagina e- conomica di “La Repubblica” del 3 dicembre 2002 – hanno individuato un pool di ban- che internazionali che avrebbe effettuato un prestito allo Stato di ben 5 miliardi di euro, ovviamente in cambio di concrete garanzie sulla cartolarizzazione in atto.

Si può, pertanto, facilmente immaginare questi ed altri privati pronti a rifarsi – come al monte dei pegni – sui beni dati in garanzia, se non avranno avuto il ritorno economico previsto dalle operazioni di vendita e di concessione.

Ed è stato pure accertato con chiarezza che, una volta sottratti al patrimonio pubblico e venduti a privati, i beni culturali perderanno automaticamente i vincoli di tutela previsti dal vigente Testo Unico 490/99 (art. 5).

Le preoccupazioni rimangono dunque forti, anche perché, di fatto, il Ministero dell’Eco- nomia si è sostituito pressoché completamente – qualcuno ha scritto «senza scrupoli» – ai due Ministeri dei Beni e delle Attività Culturali (la firma del quale sarebbe obbligatoria so- lo in caso di cessione di beni di particolare pregio storico-artistico) e dell’Ambiente (del quale non è invece prevista autorizzazione alcuna per la vendita dei beni paesistico-am- bientali), nelle loro competenze istituzionali, col decretare quali beni potranno essere tras- feriti dallo Stato alla “Patrimonio Spa”.

In proposito, non è da sottovalutare l’avvertimento contenuto nella recente relazione della Corte dei Conti – che è stata pubblicizzata solo dalle associazioni ambientaliste – in merito alla pericolosa esposizione «ai rischi del mercato» del patrimonio ambientale e culturale italiano e alla gestione privatistica delle due Spa, documento della giustizia con- tabile che vale la pena qui riportare nel passo saliente:

«la trasferibilità di azioni della Patrimonio Spa alla Infrastrutture Spa, che può a sua volta costituire società figlie anche con privati, fa sì che il patrimonio immobiliare e mobiliare dello Stato possa essere influenzato dall’andamento di società nelle quali non vi è parte- cipazione pubblica totalitaria e che, pur collegate alla Infrastrutture Spa, operano espo- ste ai rischi di mercato [...]. Le considerazioni sopra esposte inducono la Corte ad espri- mere un giudizio negativo sia sui legami azionari, sia sui conferimenti di beni che collega- no la Patrimonio Spa con la Infrastrutture Spa e con le altre società in mano pubblica».

 

Ma anche limitatamente alla gestione del patrimonio destinato a rimanere di proprietà statale, la Patrimonio Spa fa pensare ad un éscamotage – come sostiene Riccardo Franco- vich – per conservare «allo Stato l’onere della tutela lasciando i profitti alle gestioni pri- vate»: che poi «è la situazione che caratterizza in molti casi la condizione attuale della tu- tela e della gestione. Basti pensare alla rendita di posizione degli esercizi commerciali e ri- cettivi intorno alle grandi strutture museali e ai grandi centri storici ricchi di offerta cultura- le».

Intanto, un’accorata denuncia degli effetti che tale dissennata operazione può avere anche indirettamente sul futuro del patrimonio culturale del Paese viene dalla Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze che – vedendosi improvvisamente rifiutato lo spazio vitale della caserma di via Tripoli (da decenni in qualche modo promessa a questa grande con- servatoria, ma ora inserita nell’elenco dei beni alienabili a privati) – non è più in grado di garantire il naturale sviluppo del suo patrimonio librario, a meno di reperire sul mercato, con tutte le difficoltà correlate specialmente ai costi altissimi e alla non prossimità degli immobili, spazi nuovi da adibire a ampi depositi che necessitano con drammatica urgen- za. Da qui, l’aprirsi di una vicenda paradossale, per cui gli edifici demaniali di via Tripoli in via di dismissione (del tutto adatti allo sviluppo della Biblioteca anche per la loro conti- guità) potranno essere privatizzati, a costi presumibilmente esigui, dal Ministero dell’Eco- nomia, mentre il Ministero dei Beni e delle Attività Culturali sarà costretto a un ingente sforzo finanziario per acquistare, o assumere a titolo di affitto da terzi, secondo gli alti va- lori di mercato, i locali necessari alla vita della stessa Biblioteca, con sicuro aggravamen- to dell’impegno finanziario dello Stato e con scadimento della qualità del funzionamen- to della conservatoria nazionale, stante la lontananza certa degli spazi che si rendono in- dispensabili.