Paesaggio, territorio, ambiente sono
termini diversi, usati troppo spesso come sinonimi, ma comunque
collegati tra loro per individuare e capire l’ambito d’azione
dell’uomo. Ma cosa si intende realmente con il
termine «paesaggio»? Molto spesso gli
si attribuisce una valenza estetica, di percezione visiva che
produce piacere. In realtà il paesaggio può essere considerato anche
da un punto di vista geografico, come insieme di diversi elementi
fisici, biologici ed antropici di una data località oppure dal punto
di vista ecologico, come inter- relazione tra i complessi elementi
che caratterizzano un dato ambiente. Ma per poter capire il punto di
vista ecologico bisogna ripartire dalle definizioni estetica e
geografica per indivi- duarne i criteri, le motivazioni ed i
limiti. La visione estetica del paesaggio è spesso
collegata alla sua rappresentazione pittorica, sia quando il
paesaggio fa da sfondo al ritratto o alla scena sia soprattutto
quando diviene il tema del quadro, con i pittori paesaggisti. A
questa idea di paesaggio si può collegare, con l’evoluzione
tecnologica, il paesaggio dei fotografi e dei registi. Si tratta in
ogni caso di una interpretazione limitata del paesaggio sensibile, inteso cioè dal punto di vista
sensoriale: infatti ci si limita alla percezione visiva del
paesaggio, ignorando tutti gli altri sensi. Occorre
ricordare che ogni organismo vivente interagisce con la realtà che
lo circonda grazie a sistemi in grado di trasformare le informazioni
che vengono dal mondo esterno in forma comprensibile per i mezzi
biologici di cui è dotato. Queste «finestre sul mondo», nel corso
dell'evoluzione animale si sono trasformate nei cinque sensi, che
assumono ruolo e im- portanza differenti a seconda delle
caratteristiche degli animali. E' dunque chiaro che ogni animale ha
una visione della realtà che dipende dallo sviluppo del suo
particolare sistema sensoriale, che si è evoluto in rapporto alle
esigenze fondamentali di procurarsi il cibo, di ri- prodursi, di
difendersi dai pericoli e cioè di sopravvivere nel contesto
ambientale in cui si tro- va, per garantire la continuità della
specie e per trasmettere le proprie informazioni geneti- che alla
discendenza. I segnali provenienti dal mondo esterno possono essere
recepiti come sostanze chimiche (cibo da gustare o odori), agenti
fisici (luce, rumori, variazioni di tempera- tura) o forme di
pressione e di contatto. Per animali che vivono sugli
alberi, come le scimmie, la difesa è affidata soprattutto alla vista
e alla vita sociale, che richiede linguaggi per comunicare (sia a
livello visivo, mimico, come a livello sonoro). L'evoluzione dei
primati, uomo compreso, si è dunque caratterizza- ta, a livello dei
sensi, per un crescente ruolo della vista, seguita dall'udito, il
cui organo, l'o- recchio, si è particolarmente specializzato anche
come organo dell'equilibrio. Sarebbe tut- tavia sbagliato pensare ad
un ruolo marginale degli altri sensi quali il tatto, il gusto (indi-
spensabile per apprezzare il cibo) e l'olfatto che comunque, oltre a
fornire un buon apprez- zamento del cibo (che prima si annusa e poi
si gusta), è indispensabile per cogliere variazio- ni della
concentrazione di sostanze nell'aria. Questo dal punto di
vista biologico; ma anche dal punto di vista storico-culturale vi è
sta- to nell'uomo un ulteriore cambiamento nell’uso dei sensi.
Infatti, nel corso della sua storia re- cente, l’uomo non ha più
avuto significative evoluzioni biologiche degli organi di senso, ma
grazie agli sviluppi culturali e scientifici, ha elaborato protesi
per potenziarli. In particolare l’organo della vista è quello che
più ha fruito di queste protesi, non solo per eliminare difetti
quali miopia, presbitismo e astigmatismo, ma soprattutto per
potenziarlo. Così è stato possi- bile ingrandire oggetti con delle
lenti, vedere oggetti e organismi molto piccoli con il micro- scopio
o avvicinare oggetti lontani con il cannocchiale ed il telescopio e,
con opportuni accorgimenti, abbiamo esteso la nostra visione a fonti
infrarosse o ultraviolette. Ma, grazie alla moderna tecnologia,
abbiamo anche inventato strumenti in grado di funzionare come i
nostri occhi, permettendoci di acquisire nuovi modi per memorizzare
informazioni visive: dalla macchina fotografica, alla cinepresa,
fino alla telecamera. Collegando questi appa-recchi con i moderni
sistemi di telecomunicazione è stato possibile vedere ben al di là
del- l’orizzonte dei nostri occhi: la televisione ci permette di
vedere ad un tempo luoghi diversi e distanti da noi. E adesso la
rete telematica ci permette di vedere, quasi spiare, dappertutto. Ma
tutto ciò dovrebbe farci riflettere e dovremmo chiederci se il
nostro cervello e la nostra mente sono stati in grado di evolversi
di pari passo con la tecnica; ovvero siamo in grado di distinguere
se ciò che le estensioni tecnologiche dei nostri occhi ci fanno
vedere è reale o virtuale? E qual è la ‘visione’ del mondo dell’uomo
tecnologico rispetto a quella degli uo- mini del recente passato?
Siamo ancora in grado di ‘vedere’ la nostra natura biologica? La
nostra tecnologia elettronica utilizza segnali elettromagnetici, ma
non molecole chimiche e quindi l'informazione di cui siamo
bombardati quotidianamente è parziale non solo perché ci fa vedere e
sentire solo ciò che è ripreso e trasmesso (anche se noi abbiamo la
sensazione di essere informati su ogni cosa al mondo), ma anche
perché ci dà una riproduzione co- munque artificiale di solo una
parte dei segnali che possono essere captati dai nostri
sensi. Si tratta di riflessioni importanti anche per
capire cosa sia il paesaggio per l’uomo di oggi. A questo
proposito può risultare significativo riportare quanto osserva
Jeremy Rifkin, in
Bio- sphere Politcs (1991), secondo il quale vi sarebbe
stato un distacco progressivo dell’umanità dai propri sensi,
eccezion fatta per la vista: la società industriale avrebbe favorito
una visio- ne artificiale della realtà, imprigionando i sensi
dell’olfatto, del tatto del gusto e dell’udito, mentre l’occhio
dominerebbe la percezione, contribuendo a sopprimere i sensi più
intimi e più legati alle sensazioni emotive. Così la vista favorisce
l’osservazione a distanza del mon- do, trasformando il territorio in
un paesaggio visivo, al quale non apparteniamo, cioè sem- pre più
virtuale e meno reale. La conseguenza di queste
considerazioni è che per riappropriarci del nostro territorio e del
paesaggio, dovremmo riappropriarci di tutti i nostri sensi. Dovremmo
cioè cogliere di un paesaggio i suoi suoni, i suoi odori (profumi),
i suoi sapori, immergendoci con i nostri sensi fi- no a toccarlo:
ciò è possibile solo per un paesaggio reale, in un dato territorio,
caratterizza- to da precisi rapporti tra ambiente naturale e azione
dell’uomo. In tal senso anche il con- cetto di paesaggio geografico
non è adeguato, in quanto sintesi astratta di paesaggi reali e
sensibili, di cui si vuole dare una descrizione semplificata, sulla
base di un limitato numero di elementi. Per superare
questo limite occorre prendere in considerazione anche il ruolo che
i complessi processi biologici e l’attività umana svolgono nel
determinare, modellare e preservare il paesaggio; in altre parole
occorre considerare la storia geologica, biologica e umana che ha
determinato e continua a determinare il paesaggio, attraverso un
processo continuo. Pensare di poter conservare il paesaggio come
sola «impressione visiva» è non solo sbaglia- to, ma anche
impossibile, se non ci si preoccupa di preservare (e non solo
conservare) le condizioni ambientali, culturali e sociali che hanno
avuto come esito dinamico quel pae- saggio. Questa nuova lettura del
paesaggio obbliga ad analizzarlo come un testo, di cui si deve
conoscere anche il contesto e la trama: non basta cioè la sola
lettura visiva del testo, ma occorre cercare, come in un tessuto, le
relazioni tra le varie parti (quantità, natura e co- lore dei fili,
trama e ordito, ecc.), che sono date non solo dai segnali visivi, ma
anche da quelli percepiti (letti) da tutti gli altri sensi,
eventualmente potenziati da strumenti tecnolo- gici, grazie ai quali
possiamo cogliere le intime relazioni tra le diverse componenti
ambien- tali, culturali e sociali del paesaggio, determinatosi
attraverso un processo storico. In particolare se
consideriamo che la quasi totalità del territorio italiano è stato
significati- vamente (nel bene e nel male) influenzato dall’uomo,
possiamo prendere in esame un pae- saggio tipico del nostro
territorio: la pianura padana. Trascurando le epoche geologiche o i
periodi in cui pochi uomini utilizzavano un ampio territorio per
raccogliere vegetali sponta- nei e cacciare animali selvatici e
limitandoci alla storia più recente dell’uomo, dopo l'intro- duzione
dell’agricoltura, dei villaggi e della scrittura, possiamo affermare
che tutti questi ambienti italiani, con i loro ben noti paesaggi, si
sono continuamente trasformati, per giun- gere ai giorni nostri in
condizioni non sempre ottimali. La pianura padana, prima
di venire suddivisa in parcelle (centurie), come forma di paga-
mento dei militari romani e, così, diventare la più importante area
agricola della nostra pe- penisola, era un’enorme foresta di querce:
si tratta di un paesaggio di cui quasi non abbia- mo memoria, se non
in piccolissimi lembi di territorio, che rappresentano paesaggi
residui, oggi certo non rappresentativi della pianura padana, ma da
preservare come ambiente poco o niente antropizzato, evitando dunque
interventi che possano comprometterne gli e- quilibri biologici. Il
paesaggio, invece, per noi caratteristico della pianura padana è il
pae- saggio rurale, che risulta tanto più interessante e piacevole
quanto più è variato: pascoli, se- minativi, vigneti e frutteti, con
fossi, filari di alberi e siepi, oltre alle caratteristiche
residenze rurali, che variano da regione a regione. Spesso leggendo
questo paesaggio, fatto di colori e di odori che variano con le
stagioni, ai quali viene spontaneo associare i sapori dei diversi
prodotti della terra, ci si accorge che è caratterizzato dalla
geometricità degli appezza- menti di terra coltivata, sottolineati
da fossi e strade che si intersecano ad angolo retto. E’ il residuo
della vecchia centuriazione romana che costituisce la tramatura del
territorio agri- colo su cui anche oggi prosegue l’attività
contadina. E’ evidente che qualunque intervento di nuove
infrastrutture o di chiusura dei fossi per favorire un’attività
agricola più meccanizza- ta, potrebbe anche conservare l’esteriorità
del paesaggio, ma distruggerebbe questa trama storica, impedendo una
corretta lettura delle fonti del testo. Il discorso
appena fatto per la pianura padana potrebbe essere fatto anche per
la laguna di Venezia, caratterizzata da una continua interazione tra
fenomeni biologici e attività u- mane, dove la città non avrebbe
alcun senso al di fuori del contesto ambientale: ma non tutte le
attività umane sono compatibili con gli equilibri biologici e la
costruzione di un polo industriale come Marghera ha sicuramente
avuto effetti deleteri. Tuttavia pensare di chiude- re questo
ambiente in una sorta di teca di vetro e così mantenere il paesaggio
sarebbe as- surdo, anche se molti progetti e molte nuove
infrastrutture rischiano di portare a questo risul- tato.
Analogo è il discorso anche per le Cinque Terre: il paesaggio è
caratterizzato dai terrazza- menti realizzati dall’uomo, dove si
produce un ottimo vino, e solo la presenza dell’uomo e della sua
attività agricola può preservare il paesaggio, che non può essere
bloccato, cristal-lizzato. Tutti questi esempi indicano la
necessità di una lettura storica del paesaggio, individuando gli
elementi anche non visibili che garantiscono il perdurare delle
condizioni che sono alla base di un processo che coinvolge elementi
naturali, culturali e sociali: non basta conserva- re passivamente
il territorio, occorre prevenire le cause di degrado, mantenendo i
diversi aspetti, ambientali e umani, in una evoluzione storica che
rispetti le esigenze di vita sociale. Preservare dunque significa
saper leggere il testo, conservare le fonti, prevenire eventi dan-
nosi, garantire quanta più biodiversità possibile e garantire una
presenza sostenibile dell'uo- mo in quel territorio.
|