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 GIANNI TAMINO

 

PRESERVAZIONE DEL PAESAGGIO: IL PUNTO DI VISTA ECOLOGICO

 





  Paesaggio, territorio, ambiente sono termini diversi, usati troppo spesso come sinonimi, ma comunque collegati tra loro per individuare e capire l’ambito d’azione dell’uomo.
 
Ma cosa si intende realmente con il termine «paesaggio»? Molto spesso gli si attribuisce una valenza estetica, di percezione visiva che produce piacere. In realtà il paesaggio può essere considerato anche da un punto di vista geografico, come insieme di diversi elementi fisici, biologici ed antropici di una data località oppure dal punto di vista ecologico, come inter- relazione tra i complessi elementi che caratterizzano un dato ambiente. Ma per poter capire il punto di vista ecologico bisogna ripartire dalle definizioni estetica e geografica per indivi- duarne i criteri, le motivazioni ed i limiti.
  La visione estetica del paesaggio è spesso collegata alla sua rappresentazione pittorica, sia quando il paesaggio fa da sfondo al ritratto o alla scena sia soprattutto quando diviene il tema del quadro, con i pittori paesaggisti. A questa idea di paesaggio si può collegare, con l’evoluzione tecnologica, il paesaggio dei fotografi e dei registi. Si tratta in ogni caso di una interpretazione limitata del
paesaggio sensibile, inteso cioè dal punto di vista sensoriale: infatti ci si limita alla percezione visiva del paesaggio, ignorando tutti gli altri sensi.
  Occorre ricordare che ogni organismo vivente interagisce con la realtà che lo circonda grazie a sistemi in grado di trasformare le informazioni che vengono dal mondo esterno in forma comprensibile per i mezzi biologici di cui è dotato. Queste
«finestre sul mondo», nel corso dell'evoluzione animale si sono trasformate nei cinque sensi, che assumono ruolo e im- portanza differenti a seconda delle caratteristiche degli animali. E' dunque chiaro che ogni animale ha una visione della realtà che dipende dallo sviluppo del suo particolare sistema sensoriale, che si è evoluto in rapporto alle esigenze fondamentali di procurarsi il cibo, di ri- prodursi, di difendersi dai pericoli e cioè di sopravvivere nel contesto ambientale in cui si tro- va, per garantire la continuità della specie e per trasmettere le proprie informazioni geneti- che alla discendenza. I segnali provenienti dal mondo esterno possono essere recepiti come sostanze chimiche (cibo da gustare o odori), agenti fisici (luce, rumori, variazioni di tempera- tura) o forme di pressione e di contatto.
  Per animali che vivono sugli alberi, come le scimmie, la difesa è affidata soprattutto alla vista e alla vita sociale, che richiede linguaggi per comunicare (sia a livello visivo, mimico, come a livello sonoro). L'evoluzione dei primati, uomo compreso, si è dunque caratterizza- ta, a livello dei sensi, per un crescente ruolo della vista, seguita dall'udito, il cui organo, l'o- recchio, si è particolarmente specializzato anche come organo dell'equilibrio. Sarebbe tut- tavia sbagliato pensare ad un ruolo marginale degli altri sensi quali il tatto, il gusto (indi- spensabile per apprezzare il cibo) e l'olfatto che comunque, oltre a fornire un buon apprez- zamento del cibo (che prima si annusa e poi si gusta), è indispensabile per cogliere variazio- ni della concentrazione di sostanze nell'aria.
  Questo dal punto di vista biologico; ma anche dal punto di vista storico-culturale vi è sta- to nell'uomo un ulteriore cambiamento nell’uso dei sensi. Infatti, nel corso della sua storia re- cente, l’uomo non ha più avuto significative evoluzioni biologiche degli organi di senso, ma grazie agli sviluppi culturali e scientifici, ha elaborato protesi per potenziarli. In particolare l’organo della vista è quello che più ha fruito di queste protesi, non solo per eliminare difetti quali miopia, presbitismo e astigmatismo, ma soprattutto per potenziarlo. Così è stato possi- bile ingrandire oggetti con delle lenti, vedere oggetti e organismi molto piccoli con il micro- scopio o avvicinare oggetti lontani con il cannocchiale ed il telescopio e, con opportuni accorgimenti, abbiamo esteso la nostra visione a fonti infrarosse o ultraviolette. Ma, grazie alla moderna tecnologia, abbiamo anche inventato strumenti in grado di funzionare come i nostri occhi, permettendoci di acquisire nuovi modi per memorizzare informazioni visive: dalla macchina fotografica, alla cinepresa, fino alla telecamera. Collegando questi appa-recchi con i moderni sistemi di telecomunicazione è stato possibile vedere ben al di là del- l’orizzonte dei nostri occhi: la televisione ci permette di vedere ad un tempo luoghi diversi e distanti da noi. E adesso la rete telematica ci permette di vedere, quasi spiare, dappertutto. Ma tutto ciò dovrebbe farci riflettere e dovremmo chiederci se il nostro cervello e la nostra mente sono stati in grado di evolversi di pari passo con la tecnica; ovvero siamo in grado di distinguere se ciò che le estensioni tecnologiche dei nostri occhi ci fanno vedere è reale o virtuale? E qual è la ‘visione’ del mondo dell’uomo tecnologico rispetto a quella degli uo- mini del recente passato? Siamo ancora in grado di ‘vedere’ la nostra natura biologica? La nostra tecnologia elettronica utilizza segnali elettromagnetici, ma non molecole chimiche e quindi l'informazione di cui siamo bombardati quotidianamente è parziale non solo perché ci fa vedere e sentire solo ciò che è ripreso e trasmesso (anche se noi abbiamo la sensazione di essere informati su ogni cosa al mondo), ma anche perché ci dà una riproduzione co- munque artificiale di solo una parte dei segnali che possono essere captati dai nostri sensi.
  Si tratta di riflessioni importanti anche per capire cosa sia il paesaggio per l’uomo di oggi.
  A questo proposito può risultare significativo riportare quanto osserva Jeremy Rifkin, in
Bio- sphere Politcs (1991), secondo il quale vi sarebbe stato un distacco progressivo dell’umanità dai propri sensi, eccezion fatta per la vista: la società industriale avrebbe favorito una visio- ne artificiale della realtà, imprigionando i sensi dell’olfatto, del tatto del gusto e dell’udito, mentre l’occhio dominerebbe la percezione, contribuendo a sopprimere i sensi più intimi e più legati alle sensazioni emotive. Così la vista favorisce l’osservazione a distanza del mon- do, trasformando il territorio in un paesaggio visivo, al quale non apparteniamo, cioè sem- pre più virtuale e meno reale.
  La conseguenza di queste considerazioni è che per riappropriarci del nostro territorio e del paesaggio, dovremmo riappropriarci di tutti i nostri sensi. Dovremmo cioè cogliere di un paesaggio i suoi suoni, i suoi odori (profumi), i suoi sapori, immergendoci con i nostri sensi fi- no a toccarlo: ciò è possibile solo per un paesaggio reale, in un dato territorio, caratterizza- to da precisi rapporti tra ambiente naturale e azione dell’uomo. In tal senso anche il con- cetto di paesaggio geografico non è adeguato, in quanto sintesi astratta di paesaggi reali e sensibili, di cui si vuole dare una descrizione semplificata, sulla base di un limitato numero di elementi.
  Per superare questo limite occorre prendere in considerazione anche il ruolo che i complessi processi biologici e l’attività umana svolgono nel determinare, modellare e preservare il paesaggio; in altre parole occorre considerare la storia geologica, biologica e umana che ha determinato e continua a determinare il paesaggio, attraverso un processo continuo. Pensare di poter conservare il paesaggio come sola
«impressione visiva» è non solo sbaglia- to, ma anche impossibile, se non ci si preoccupa di preservare (e non solo conservare) le condizioni ambientali, culturali e sociali che hanno avuto come esito dinamico quel pae- saggio. Questa nuova lettura del paesaggio obbliga ad analizzarlo come un testo, di cui si deve conoscere anche il contesto e la trama: non basta cioè la sola lettura visiva del testo, ma occorre cercare, come in un tessuto, le relazioni tra le varie parti (quantità, natura e co- lore dei fili, trama e ordito, ecc.), che sono date non solo dai segnali visivi, ma anche da quelli percepiti (letti) da tutti gli altri sensi, eventualmente potenziati da strumenti tecnolo- gici, grazie ai quali possiamo cogliere le intime relazioni tra le diverse componenti ambien- tali, culturali e sociali del paesaggio, determinatosi attraverso un processo storico.
  In particolare se consideriamo che la quasi totalità del territorio italiano è stato significati- vamente (nel bene e nel male) influenzato dall’uomo, possiamo prendere in esame un pae- saggio tipico del nostro territorio: la pianura padana. Trascurando le epoche geologiche o i periodi in cui pochi uomini utilizzavano un ampio territorio per raccogliere vegetali sponta- nei e cacciare animali selvatici e limitandoci alla storia più recente dell’uomo, dopo l'intro- duzione dell’agricoltura, dei villaggi e della scrittura, possiamo affermare che tutti questi ambienti italiani, con i loro ben noti paesaggi, si sono continuamente trasformati, per giun- gere ai giorni nostri in condizioni non sempre ottimali.
  La pianura padana, prima di venire suddivisa in parcelle (centurie), come forma di paga- mento dei militari romani e, così, diventare la più importante area agricola della nostra pe- penisola, era un’enorme foresta di querce: si tratta di un paesaggio di cui quasi non abbia- mo memoria, se non in piccolissimi lembi di territorio, che rappresentano paesaggi residui, oggi certo non rappresentativi della pianura padana, ma da preservare come ambiente poco o niente antropizzato, evitando dunque interventi che possano comprometterne gli e- quilibri biologici. Il paesaggio, invece, per noi caratteristico della pianura padana è il pae- saggio rurale, che risulta tanto più interessante e piacevole quanto più è variato: pascoli, se- minativi, vigneti e frutteti, con fossi, filari di alberi e siepi, oltre alle caratteristiche residenze rurali, che variano da regione a regione. Spesso leggendo questo paesaggio, fatto di colori e di odori che variano con le stagioni, ai quali viene spontaneo associare i sapori dei diversi prodotti della terra, ci si accorge che è caratterizzato dalla geometricità degli appezza- menti di terra coltivata, sottolineati da fossi e strade che si intersecano ad angolo retto. E’ il residuo della vecchia centuriazione romana che costituisce la tramatura del territorio agri- colo su cui anche oggi prosegue l’attività contadina. E’ evidente che qualunque intervento di nuove infrastrutture o di chiusura dei fossi per favorire un’attività agricola più meccanizza- ta, potrebbe anche conservare l’esteriorità del paesaggio, ma distruggerebbe questa trama storica, impedendo una corretta lettura delle fonti del testo.
  Il discorso appena fatto per la pianura padana potrebbe essere fatto anche per la laguna di Venezia, caratterizzata da una continua interazione tra fenomeni biologici e attività u- mane, dove la città non avrebbe alcun senso al di fuori del contesto ambientale: ma non tutte le attività umane sono compatibili con gli equilibri biologici e la costruzione di un polo industriale come Marghera ha sicuramente avuto effetti deleteri. Tuttavia pensare di chiude- re questo ambiente in una sorta di teca di vetro e così mantenere il paesaggio sarebbe as- surdo, anche se molti progetti e molte nuove infrastrutture rischiano di portare a questo risul- tato.
  Analogo è il discorso anche per le Cinque Terre: il paesaggio è caratterizzato dai terrazza- menti realizzati dall’uomo, dove si produce un ottimo vino, e solo la presenza dell’uomo e della sua attività agricola può preservare il paesaggio, che non può essere bloccato, cristal-lizzato.
  Tutti questi esempi indicano la necessità di una lettura storica del paesaggio, individuando gli elementi anche non visibili che garantiscono il perdurare delle condizioni che sono alla base di un processo che coinvolge elementi naturali, culturali e sociali: non basta conserva- re passivamente il territorio, occorre prevenire le cause di degrado, mantenendo i diversi aspetti, ambientali e umani, in una evoluzione storica che rispetti le esigenze di vita sociale. Preservare dunque significa saper leggere il testo, conservare le fonti, prevenire eventi dan- nosi, garantire quanta più biodiversità possibile e garantire una presenza sostenibile dell'uo- mo in quel territorio.